“Quando entrerete nella Camera di consiglio vi prego di avere ben presente che nella vicenda che siete chiamati a giudicare questo principio costituzionale (il dettato degli articoli 9 e 41 della Carta, rispettivamente in tema di tutela dell’ambiente e della biodiversità e di divieto per l’iniziativa economia di arrecare danni alla salute, ndr) è stato violentemente calpestato da un avvelenamento invisibile ma non per questo meno terribile che ha contaminato, forse per sempre, le acque di un territorio vasto e 150.000 chilometri quadrati e una popolazione di 350.000 persone di tre province venete. Vi chiedo di ricordare che a seguito di questo avvelenamento molte di queste persone hanno nel proprio sangue una sostanza che ormai è accertato è sicuramente cancerogena, spesso in quantità superiore molto superiori ai valori prescritti dall’Istituto Superiore di Sanità. Infine, vi chiedo di non dimenticare le t-shirt, le t-shirt che indossano le mamme no Pfas con la scritta del nome del figlio e accanto i valori di Pfas che il figlio ha nel proprio sangue. È su questa pietra di inciampo che vi invito a soffermarsi a riflettere un attimo prima di prendere la vostra decisione”.

Sono le parole con le quali l’avvocato Matteo Ceruti di Rovigo, promotore della rete professionale Lpteam e parte civile nel processo sul caso Pfas in corso di fronte alla Corte d’ Assise di Vicenza, ha chiuso la propria discussione, lo scorso 27 marzo.

Gli imputati nel procedimento sono in tutto 15, i vertici delle aziende ritenute coinvolte nell’inquinamento da Pfas. Il dibattimento in corso è il frutto della riunione di due indagini, disposto dal giudice in sede di udienza preliminare. In particolare, il filone principale è quello che riguarda la contaminazione da Pfas a catena lunga (Pfoa e Pfos) che sarebbe avvenuta sino al 2013. Il secondo filone, invece, riguarda l’inquinamento ambientale (punito dall’art. 452 bis del codice penale) conseguente alla contaminazione da Pfas a catena corta (GenX e C6O4) dal 2013 al 2017. In questo secondo filone sono ipotizzati anche reati fallimentari, ossia relativi all’ipotesi di bancarotta, che vanno quindi ad aggiungersi a quelle di disastro (art. 434 c.p.) e avvelenamento delle acque destinate al consumo umano (art. 439 c.p.). Quest’ultima fattispecie prevede la competenza della Corte d’Assise, davanti alla quale è appunto aperto il dibattimento.

Presenti nel processo, come difensori di parte civile, tre avvocati della rete professionale Lpteam:  appunto, Matteo Ceruti, promotore della rete professionale Lpteam, e i colleghi Cristina Guasti e Marco Casellato, componenti della rete. Assistono, come detto, diverse persone aderenti al movimento delle “Mamme No Pfas”. Si tratta di mamme, ragazzi e altri residenti nella zona rossa, che si sono sottoposte al biomonitoraggio, con esiti purtroppo positivi, ossia con il rilevamento di concentrazioni di Pfas nel sangue superiore ai valori di riferimento, in determinati casi con patologie, secondo la letteratura, correlabili con l’esposizione a Pfas.

La discussione delle parti civili ha fatto seguito alla requisitoria del pubblico ministero Hans Roderich Blattner che lo scorso 13 febbraio aveva domandato la condanna 9 dei 15 imputati: 121 anni e 6 mesi la richiesta totale di pena, a carico di ex manager ed ex vertici societari. Per gli altri sei alla era arrivata arriva la richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto.

La discussione dell’avvocato Ceruti ha battuto con molta chiarezza su un tasto fondamentale: ossia la circostanza per cui i danni da contaminazione fossero noti da tempo ai vertici societari e ai manager che, tuttavia, avrebbero scelto deliberatamente di coprirli, evitando la comunicazione agli enti pubblici e alle istituzioni deputate alla tutela della salute pubblica, con una operazione chiaramente di stampo lobbistico.

“Questo – ha detto l’avvocato Ceruti –  è ben diversamente un processo penale per una delle vicende di più vasta contaminazione ambientale e di avvelenamento idropotabile della storia umana, imputabile con assoluta certezza ad un unico relativamente piccolo stabilimento industriale; accusato di essere stato gestito per oltre un ventennio e con diverse governance aziendali nello spregio delle più elementari regole cautelari, sulla base di una ben precisa strategia aziendale criminale perseguita negli anni con crescente determinazione volta esclusivamente al profitto economico, indipendentemente da quelle che nel freddo linguaggio delle economie si chiamano le esternalità negative, ossia prescindendo dagli elevatissimi costi costi ambientali e sanitari pur perfettamente conosciuti e consapevolmente accettati. Questa è l’imputazione sulla quale voi Giudici della Corte d’Assise di Vicenza siete chiamati a decidere. Siete chiamati a giudicare quel che è avvenuto in uno stabilimento industriale che per anni è sfuggito ad ogni controllo delle pubbliche autorità, le quali neppure conoscevano quel che veniva prodotto nell’impianto ed erano all’oscuro delle effettive modalità di produzione e in particolare di quel che veniva scaricato nell’ambiente. Il più importante impianto di produzione europeo di una sostanza chimica altamente pericolosa collocato in una delle aree più fragili Italia ed Europa dal punto di vista idrogeologico è stato infatti per anni un fantasma per tutti. Miteni è stato un vero e proprio impianto fantasma, nel senso che la sua produzione ed emissione di Pfas negli scarichi e nell’ambiente non era conosciuto dai gestori dei depuratori degli acquedotti che nessuna tecnologia depurativa hanno quindi messo in atto. Non era controllata dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente che neppure aveva gli standard per analizzare i PFAS negli scarichi dello stabilimento e nelle acque superficiali e sotterranea. E per anni è rimasta perfettamente sconosciuta allo stesso Istituto Superiore di Sanità (…). Un fantasma tenuto nascosto grazie ad un sistematica operazione lobbistica portata avanti con dispendio di mezzi degli operatori del settore per ritardare la diffusione in Europa della conoscenza sulla pericolosità della sostanza ormai ben nota negli Stati Uniti quanto meno dall’anno 2000. Un’azione di nascondimento delle evidenze scientifiche e di reale efficacia cui Miteni ha dato un concreto e importante contributo allo scopo di sollevare dubbi strumentali confondendo e rallentando per anni l’attività di studiosi e ricercatori, agenzie di regolazione di controllo e legislator. eUn fantasma il cui vero è stato squarciato in modo assolutamente inatteso e per certi versi anche casuale da un paio di ricercatori del CNR nel 2013, che con rocamboleschi prelievi da fontanelle dei cimiteri e bagni dei ristoranti hanno scoperto che nel cuore del ricco ed evoluto Nordest si era ormai inesorabilmente diffusa una delle maggiori contaminazioni chimiche delle acque della storia umana”.

Un quadro tanto grave da consentire, nel corso della discussione, di considerare questo caso di contaminazione come “uno dei quattro grandi disastri industriali e tecnologici che hanno colpito il Veneto dagli anni ’60 del secolo scorso a oggi”. Una tragedia, quindi, ambientale e umana, che si colloca a fianco del disastro del Vajont del 9 ottobre del 1963, del disastro del petrolchimico di Marghera e dell’inquinamento provocato nel corso dei decenni dall’attività della centrale elettrica a olio combustile di Porto Tolle.

Una situazione di illegalità che, secondo la Procura e le parti civili, ha avuto un pesantissimo contraltare a livello di conseguenze sulla salute pubblica, in primo luogo con 4mila morti, nell’arco di 30 anni, in più rispetto a quanto ci si sarebbe atteso sulla base della media.

Un dato che emerge con chiarezza dallo studio epidemiologico, incredibilmente l’unico, condotto da professor Annibale Biggeri, ampiamento riportato nella discussione.

“Ecco – ha proseguito in aula l’avvocato Ceruti – lo studio è uno studio epidemiologico che contiene l’evoluzione della mortalità nella zona rossa tra il 1985 e il 2018, facendo un confronto tra gli abitanti delle province di Vicenza, Padova e Verona residenti nell’area contaminante, cioè la zona rossa con i comuni allacciati all’acquedotto e residenti delle stesse tre province ma residenti nei comuni non allacciati a questo acquedotto, fuori dall’area rossa contaminata. Gli esiti sono agghiaccianti e sono stati esposti in quest’aula, l’eccesso di mortalità generale nella zona rossa è pari a 3890 decessi in più nei 34 anni considerati. Ciò significa che il 7% della mortalità in quest’area è attribuita alla residenza nell’area contaminata da sostanze perfluoroalchimiche. Detto altrimenti, ci ha detto il Professore, ogni tre giorni nel periodo di 34 anni che è stato monitorato dall’85 al 2018 si è verificato un morto in più dell’atteso imputabile ai PFAS; c’è in particolare la prova di un aumento di mortalità assoluto per le malattie cardiovascolari”.

Altro punto cardine della discussione è stata, come detto, la piena consapevolezza da parte della società dei rischi di contaminazione: in questo senso, vanno i report, le consulenze e le analisi che si sono susseguite negli anni, a partire dal 1996 sino al 2008.  Tanto da consentire di arrivare a una conclusione estremamente chiara. Ossia la piena ravvisabilità, nella condotta degli imputati, di un dolo diretto.

“Alla luce delle condotte che abbiamo passato in rassegna sinora – ha infatti ribadito l’avvocato Ceruti – ritengo che dunque nel caso di specie ci siano tutti i presupposti per ritenere integrato un dolo diretto degli Imputati, quanto gli stessi non può dirsi che ci sia stata una colpa nel senso di un’estensione nell’agire doveroso per ragioni di trascuratezza, per ragioni di imperizia, per semplice imprudenza. C’è stata, invece, una precisa volontà ripetutamente ripetuta negli anni e direi con decisioni rinnovate negli anni, quantomeno a partire dal 96, di proseguire nella produzione avendo la perfetta consapevolezza di continuare nella diffusione della contaminazione delle acque destinate alla popolazione che vive a valle e di tenere il tutto nascosto alle pubbliche autorità”.

Ha quindi preso la parola l’avvocato Cristina Guasti, di Rovigo, pure componente della rete professionale Lpteam e difensore del gruppo delle “Mamme No Pfas”. Si è concentrata, in particolare, sulle ricadute che questa agghiacciante contaminazione ha avuto sulle gestanti, sui nascituri e sulla fertilità delle giovani e future generazioni. Tutti dati che sono stati analizzati dalla dottoressa Paola Facchin, unica responsabile del Registro Nascite della Regione del Veneto, istituito nel 2002.

“Nel 2017 – ha spiegato l’avvocato Guasti – su richiesta della Regione Veneto, ha condotto uno studio sulla base di un quesito preciso: valutare le eventuali conseguenze o problematiche in relazione alle donne in età fertile, alle gravide e ai loro nati nell’area oggetto della continuazione da Pfas. Questo il quesito. In buona sostanza la Regione voleva sapere se le donne che avessero intrapreso una gravidanza dopo un’esposizione ai Pfas, avessero stesse corso un rischio per la salute e se uguale rischio avesse corso il loro bambino”.

La risposta, purtroppo, benché non inattesa, alla luce di quanto era già emerso e stava emergendo, è stata drammatica.

“Lo studio della Dottoressa Facchin – è proseguita infatti la discussione – ha dato gli esiti che nessuno avrebbe voluto sentire ma che tutti temevano; ha dimostrato che le gestanti residenti nella zona rossa nell’intervallo di tempo considerato, ovvero dal 2002 al 2015 hanno avuto un rischio molto più elevato di sviluppare il diabete gravidico rispetto alle gestanti al di fuori di questo perimetro e che dunque non avevano fruito dell’acqua potabile contaminata. In particolare, lo studio ha denunciato che mammano che ci si allontanava dalla zona rossa e si passava la zona arancione e poi a quella gialla sino a quella verde, la percentuale di rischio di sviluppare per le gestanti diabete gravidico si abbassava progressivamente, con un intervallo di rischio elevatissimo, maggiore per le gestanti della zona rossa del 69% in più dell’area rossa rispetto all’area verde. Per semplificare si potrebbe dire anche il rapporti è risultato essere 1 a 69, una gestante in area verde contro 69 gestanti nell’area rossa”.

Non è questo l’unico rischio corso da gestanti e nascituri nell’area rossa, tuttavia; e neppure dai giovani. Il medesimo studio, infatti, ha anche fotografato un aumento del rischio relativo alla Sga, ossia la sindrome del basso peso alla nascita (+29%), così come di malformazioni cerebrali (+11%), che, passando alla fertilità maschile, di alterazione della qualità del seme (+32%).

La discussione degli avvocati Ceruti e Guasti era stata preceduta, all’udienza del 20 marzo, da quella dell’avvocato Marco Casellato di Rovigo, pure componente della rete professionale Lpteam e pure difensore di parte civile, che si era occupato, in particolare, del reato di avvelenamento delle acque e della possibilità di ravvisare, al suo interno, l’elemento del dolo diretto. In questo senso, uno dei punti cardini della sua discussione è stata illustrata tramite una chiara analogia, a beneficio, in particolare, dei giudici popolari.

“Allora – ha spiegato – volendo esemplificare i concetti, sempre a beneficio della giuria popolare, ritengo che possa essere un valido esempio quello della responsabilità in ambito medico. Cioè, il caso del sanitario che omette una determinata, di somministrare una determinata terapia al paziente e omette di operarlo, di fare un intervento sanitario e che da questa omissione consegue una lesione o la morte del paziente. Si tratta normalmente di ipotesi in cui la responsabilità del sanitario che ha omesso di somministrare questa cura è configurabile in termini colposi, cioè il sanitario ha omesso di dare la medicina o la terapia per negligenza, per imperizia, per violazione di regole cautelari, linee guida in ambito sanitario. Però proviamo un attimo a considerare l’ipotesi estrema del medico che conosce perfettamente il quadro clinico del paziente, sa che il paziente versa in una situazione di salute gravemente compromessa e sa che per fronteggiare quella situazione sanitaria così compromessa occorre somministrare una determinata terapia. Ebbene, questo medico non somministra alcuna terapia, non esegue alcuna operazione. È chiaro che in questo caso, ma siamo sempre in un’omissione perché anche qui il medicо omette, però in questo caso questa omissione è evidentemente sorretta da un atteggiamento psicologico diverso dal caso del sanitario che abbiamo fatto all’inizio. Qui non c’è una colpa, qui c’è il dolo perché il sanitario che ha dicevo questa rappresentazione chiarissima, univoca del quadro sanitario del paziente, decide lucidamente di non somministrargli la terapia, di non somministrargli la cura. E quindi commette il reato di lesioni o omicidio, a seconda dei casí e sempre che ne sussistano tutti gli altri requisiti di legge, lo commette con dolo. Allora l’esempio che vi ho appena fatto del sanitario lo possiamo applicare anche nella nostra vicenda processuale, dove come dicevo c’è una condotta contestata in termini omissivi. Anche qui si dice gli Imputati, tra le altre condotte, hanno omesso. Allora il medico Miteni aveva la perfetta conoscenza del grave compromesso quadro clinico in cui versava lo stabilimento, aveva la piena conoscenza del rischio sanitario a cui erano esposti i suoi lavoratori e i cittadini che potevano attingere l’acqua dalla falda avvelenata da queste sostanze bioaccumulabili, tossiche e persistenti. Quindi in altri termini l’equipe medica degli odierni Imputati aveva la radiografia perfetta, continuando il nostro parallelismo con il medico, aveva la radiografia perfetta dello stato dell’impianto e della falda sottostante, perché gliel’ hanno detto gli studi commissionati alle società di consulenza ambientale, Ecodeco, Erm. E gli avevano consegnato queste società proprio le lastre radiografiche dove si vedeva chiaramente che il sito versava in una situazione gravemente pesantemente compromessa. E a fronte di questo quadro clinico cosi univoco cosi chiaro cosa fanno i sanitari, l’equipe sanitaria degli odierni Imputati? Omettono, cioè non si attivano, non si attivano come invece avevano l’obbligo giuridico di fare in virtù della posizione di garanzia che questi avevano”.

Non solo. L’avvocato Casellato nella sua discussione ha anche sostenuto che, a fronte della mancata attivazione, ci sarebbe stata anche una attiva opera di nascondimento delle evidenze – drammatiche – che erano già in possesso dei vertici societari per quanto riguarda effettività, pericolosità e conseguenze dell’inquinamento che si andava consumando.

“(…) possiamo dire ogni oltre ragionevole dubbio – ha quindi proseguito l’avvocato – che è provato quello che nel dolo dei reati omissivi si chiama il presupposto di fatto, cioè quella situazione che doveva far scattare l’obbligo giuridico di garanzia in capo agli Imputati. Quindi, non solo possiamo dire che a fronte di questo univoco quadro clinico gli Imputati non hanno posto in essere alcuna delle azioni che avevano l’obbligo giuridico di compiere, cioè quelle descritte nel capo di imputazione, non hanno somministrato alcuna terapia, non hanno eseguito alcuna operazione per intenderci. Ma possiamo anche concludere che gli Imputati hanno fatto di tutto per occultare quelle informazioni, per insabbiare quella cartella clinica che li metteva in condizioni di conoscere e dunque che gli imponeva di agire in ragione della loro posizione di garanzia”.

Tanto che sarebbe maturato un Gap temporale impressionante tra il momento in cui queste evidenze erano incontestabilmente in mano ai vertici societari e quello in cui sono arrivate nelle mani delle istituzioni e degli enti di riferimento: 22 anni.

“Ecco, questa tabella – ha detto l’avvocato Casellato – che vi invito, ripeto di pagina 8 della relazione Grandjean (consulente delle parti civili, ndr), vi invito a leggere perché documenta questa frattura conoscitiva, questo lag temporale se vogliamo. Lo documenta in una misura che il Professor Grandjean ha stimato in una media di circa 22 anni. 22 anni tra che cosa? Tra la data in cui queste informazioni sanitarie erano in possesso degli Imputati e la data successiva di 22 anni in cui queste informazioni sono divenute di dominio pubblico”.

Un altro punto della discussione, sempre “tecnico”, è stato quello della “realtà” del pericolo, necessaria, secondo la giurisprudenza, per la configurabilità del delitto di avvelenamento di acque. Requisito della realtà che però non significa certezza di un nesso causale tra la condotta e gli effetti avversi per la salute, ma, appunto, a una immanenza del pericolo derivante dal fatto che studi scientifici associano alla diffusione di quelle sostanze il verificarsi effetti avversi per la salute.

“Perché ci sia questo reato – ha spiegato l’avvocato –  vista anche la severità delle pene previste dal legislatore, occorre che il pericolo sia reale, cioè che il pericolo sia serio, questo ci sta dicendo la Cassazione. Quindi sta intervenendo su un piano diverso, non su quello della causalità ma su quello dell’offensività. Quindi non chiede un evento in senso naturalistico da ricollegare causalmente alla condotta, ma chiede quello che, uno dei più autorevoli Professori di Diritto Penale, purtroppo recentemente scomparso, chiamava l’evento giuridico cioè l’offesa. Perché il 439 sia integrato occorre un’offesa. Allora quando il pericolo è serio o reale? Non è, ci tengo a dirlo una sottile disquisizione meramente accademica, quello che sto dicendo ha delle ricadute pratiche sul piano processuale che ci interessa. La Cassazione ci insegna che il pericolo è “reale” quando questa sostanza contaminante ha degli effetti associati, degli effetti avversi per la salute sulla base delle indagini scientifiche. Cioè quando ci sono delle indagini scientifiche, degli studi che documentano degli effetti avversi associati a queste sostanze, ecco, che il pericolo è reale”.

E, a questo proposito, l’avvocato Casellato ha citato un elemento significativo, oltre alle varie consulenze, e fattuale: ossia la decisione del principale competitor dell’azienda i cui vertici oggi si trovano a processo, di interrompere la produzione, proprio alla luce di questo pericolo.

“Ma scusate – ha ribadito l’avvocato Casellato – il fatto che nel 2000 la 3M dismetta la produzione del PFOA in conseguenza degli elevati rischi che questo aveva sulla salute, ma è o non è questo un indice di serietà del pericolo? Cioè il tuo principale competitor nel mercato dismette la produzione della stessa sostanza che tu produci e questo secondo te non è un indice di serietà del pericolo?”.

 

 

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