La vasca D dell’impianto Coimpo Agribiofert di Ca’ Emo, Adria, quella nella quale, il 22 settembre del 2014, si generò una nube tossica, frutto di una reazione chimica, in grado di uccidere quattro persone, non venne mai assoggettata ad autorizzazioni alle emissioni perché la società, supportata dai propri tecnici, sostenne con successo nelle sedi istituzionali che, da quella vasca, non si originavano emissioni apprezzabili.

E’ un paradosso tragico, grottesco e sconcertante, quello che emerge dalla memoria depositata dagli avvocati di parte civile Marco Casellato, componente della rete professionale Lpteam, che ha assistito una serie di privati cittadini residenti nei dintorni dell’impianto; Matteo Ceruti, promotore della rete professionale, che assisteva le associazioni ambientaliste Legambiente Onlus, Wwf Italia Onlus e altri privati;  e Carmelo Marcello, componente della rete professionale, che ha seguito una serie di privati. Il processo di riferimento è quello con imputazione principale di omicidio colposo plurimo, quindi reati ambientali e getto pericoloso di cose, per l’incidente mortale sul lavoro, ma anche per le procedure lavorative non conformi alle autorizzazioni che sarebbero state la prassi nell’impianto e le molestie odorigene che si sarebbero verificate per la popolazione residente nelle vicinanze.

Un processo che, di recente, ha visto il proprio impianto accusatorio, così come le statuizioni civili, confermate dalla Corte di Cassazione. A giudicato formatosi, quindi, è interessante ripercorrere quanto ricostruito nella memoria delle parti civili, che ben fotografano quanto accadeva nell’impianto, sino al tragico epilogo e oltre.

La memoria parte dall’analisi del capo di imputazione CC), che così recita:

 “del reato p. e p. dagli artt. 110 c.p. e 269 e 279 D.Lvo 152/06, perché, in concorso tra loro, nella medesima qualità di cui al capo AA), in assenza della prescritta autorizzazione alle emissioni in atmosfera, esercitavano un impianto – formalmente autorizzato, quanto alla ditta CO.IM.PO. ad effettuare attività di messa in riserva di rifiuti liquidi e solidi aventi caratteristiche tali da poter essere utilizzati in agricoltura quali ammendanti del terreno, e, quanto alla ditta AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI, alla produzione di “gesso di defecazione” che, tenuto conto dell’attività di “condizionamento” dei fanghi, non poteva non produrre acido solforico, e che, in violazione delle prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzativi, effettuava il condizionamento di sostanze diverse dai fanghi di depurazione, omettendo qualunque processo di “separazione” del gesso dalle altre sostanze messe a reagire, realizzando all’interno della vasca “D” una mera attività di scarico e miscelazione di varie tipologie di rifiuti (fanghi di depurazione, digestati provenienti da trattamenti anaerobici di rifiuti organici, rifiuti contenenti zolfo e calcio provenienti da attività industriali e da sistemi di abbattimento dei fumi, contenenti sostanze acide e grandi 3 concentrazioni di solfuri, i quali, posti a contatto con le sostanze acide, generavano acido solfidrico, nonché ammoniaca e sostanze organiche volatili), dalla quale derivavano emissioni diffuse, in particolare provenienti dalla vasca cd. “D” di produzione del correttivo liquido (priva di tubi di scarico, di sistemi di stoccaggio dell’acido solforico, di elettroagitatori per il rimescolamento delle sostanze, di opportuno “sistema chiuso” in cui far confluire il materiale da idrolizzare e, a valle, di altro “sistema chiuso” per la neutralizzazione-precipitazione del solfato di calcio per mezzo dell’acido solforico), ma anche dalle vasche “A1” e “A2”, in prossimità delle quali sono stati accertati valori di ammoniaca e di acido solfidrico superiori ai limiti previsti e in concentrazioni pericolose per la salute umana, omettendo di dotare l’impianto di idonei sistemi di captazione e abbattimento delle predette sostanze.

Il punto centrale del ragionamento contenuto nella memoria è che la Vasca D non venne assoggettata ad autorizzazione in quanto venne dichiarato che non fuoriuscivano da questa emissioni apprezzabili.

“Invero la determinazione provinciale n. 1946 dell’11.06.2012 con cui venne autorizzato lo stabilimento Agri.Bio.Fert. alle emissioni in atmosfera ex art. 269 d.lgs. 152/2006 non reca alcuna autorizzazione alle emissioni della vasca D “viste le considerazioni della Ditta a seguito di campionamento effettuato e visto che nella modulistica è stato indicato che non saranno presenti emissioni diffuse” (così le premesse della determina, pag. 2, penultimo cpv.); di qui l’unica prescrizione delle “sole misure già adottate presso la vasca D di produzione di correttivo liquido quindi che i materiali, sia liquidi che in polvere, siano introdotti con tubi di scarico direttamente sul fondo” (premesse cit. e punto 3 del dispositivo)”.

E ancora:

La ditta Agri.Bio.Fert. presentava in Provincia una domanda di autorizzazione alle emissioni per lo stabilimento prevedendo emissioni convogliate dal solo impianto per la produzione del correttivo dai fanghi palabili e nessuna emissione diffusa dall’intero stabilimento; così il punto 5 del Modulo 1: “Non saranno presenti emissioni diffuse”. Dunque nell’istanza 6 nulla si prevedeva in termini emissivi per la vasca D dedicata alla produzione di correttivo da fanghi pompabili e, in termini generali, nessuna emissione diffusa era prevista per l’intero stabilimento;

In questo modo, prosegue la ricostruzione in memoria, nonostante le perplessità di Arpav, in sede di Conferenza dei servizi, la ditta Agribiofert (operante nell’impianto Coimpo in stretto legame con questa seconda azienda, tanto da potere costituire, di fatto, un unicum, perlomeno quanto a responsabilità), riuscì ad ottenere l’autorizzazione. Anche sulla base, prosegue la memoria, del determinante intervento di un funzionario, in seguito rinviato a giudizio per la pesante ipotesi di corruzione, proprio in favore dei vertici di Coimpo – Agribiofert.

“Alla conferenza di servizi del 30 maggio 2012 il dott. Bertin di ARPAV Rovigo ribadiva in sostanza le considerazioni critiche della dott.ssa Gabrieli concludendo a verbale che “I risultati ottenuti, vista la procedura usata, non sono rappresentativi della situazione dell’impianto. Si ritiene necessario che l’indagine ambientale venga ripetuta prevedendo criteri e metodiche diverse da quelli utilizzati. In particolare si dovrà rifare la verifica in diversi periodi dell’anno … ed includendo anche parametri con l’unità odorimetrica. Considerata la tipologia produttiva dello stabilimento in argomento sarebbe auspicabile l’effettuazione di un’indagine ambientale completa.”. Seguiva l’intervento del capo servizio ambiente della Provincia p.i. Boniolo il quale invece insisteva per il rilascio dell’autorizzazione senza alcuna nuova indagine ambientale. Quindi a verbale risulta la determinazione conclusiva della conferenza verbalizzata nei seguenti termini: “Dopo ulteriore disamina e valutazione, si concorda che l’iter autorizzativo può proseguire con il rilascio dell’autorizzazione” senza alcuna prescrizione di indagine ambientale “che sarà invece richiesta a parte”. Rimane da comprendere se questa decisione della conferenza dei servizi provinciale sia stata assunta in difformità dal parere del rappresentante di ARPAV (presente alla conferenza per esprimere il proprio parere tecnico, ma formalmente estraneo alla decisione provinciale) ovvero se quest’ultimo abbia alla fine anch’egli “concordato” con quest’esito (abbandonando dunque la richiesta di integrazione istruttoria inizialmente proposta)”.

La memoria prosegue poi a illustrare l’evidenza per la quale, in realtà, le emissioni fossero perfettamente note a tutti coloro che operavano nell’impianto.

“valori elevatissimi sia di acido solfidrico che di ammoniaca vennero infine misurati nel marzo 2014 da Osmotech presso la vasca D (in funzione dello “Studio della diffusione atmosferica delle emissioni odorigene” redatto da Chimicambiente nel luglio 2014). In particolare si rammenta che tali analisi hanno documentato che le concentrazioni di H2S nell’aria intorno alle vasche si attestavano addirittura al di sopra del limite massimo di capacità di rilevazione strumentale (> 20 ppm) (vds. relazione Casetta, pag. 15). In proposito l’autore delle misurazioni il dott. Benzo Maurizio di Osmotech ha precisato (all’udienza del 12 dicembre 2018, pagg. 16 e seguenti). di non aver mai rinvenuto, in tutta la sua esperienza professionale, in altri impianti di trattamento fanghi, valori di Acido solfidrico (oltre che di ammoniaca) così elevati come quelli registrati nell’impianto Co.Im.Po.-Agri.Bio.Fert. (vds. infra § 2)”.

Non solo: tutti i periti consultati nel corso del processo, argomentano gli avvocati di parte civile, hanno convenuto sul fatto che la produzione di una reazione simile a quella, mortale, del 22 settembre del 2014, era sicuramente pronosticabile. Non solo: sarebbe anche potuta andare molto, molto peggio, per quanto sia sconvolgente dirlo, a fronte di quattro vittime, in condizioni meteo e di vento differenti.

“Queste simulazioni – scrive infatti al proposito il consulente della parte civile – mettono in evidenza come il giorno dell’incidente, grazie ai venti spiranti verso una zona agricola non abitata (SSE rispetto alla vasca D), la nube tossica non abbia interessato con effetti pericolosi la popolazione residente a Ca’ Emo. Qualora l’incidente fosse avvenuto invece nei giorni successivi (es. 22/10/2014, 26/10/2014 e 05/12/2014), stante le condizioni meteo di quei giorni, gli effetti tossici della nube di acido solfidrico avrebbero interessato persone residenti nell’intorno dell’impianto, a partire dal custode della Ditta COIMPO, oltre che i residenti di via America n. 7, fino all’abitato di Ca’ Emo lungo la SP1 e Loc. Scolo Valdentro”.

La memoria passa quindi ad analizzare il campo di imputazione DD), fondamentale ai fini della costituzione di parte civile, dal momento che interessa le emissioni maleodoranti provenienti, secondo l’accusa, dallo stabilimento e che avrebbero avuto un pesante impatto sui residenti nelle vicinanze, modificando profondamente, in negativo, le loro condizioni e abitudini di vita. Di seguito, il capo di imputazione, che ipotizza l’articolo 674 cp:

“perché, in concorso tra loro (e nella medesima qualità in cui al capo AA), esercitando l’impianto con le modalità descritte nel capo che precede, cagionavano esalazioni maleodoranti e intollerabili, dovute anche alle fermentazioni subite dai materiali sparsi sui campi e tenuti in stoccaggio presso il sito, con diffusione di polveri diffuse durante l’attività di trasferimento dei rifiuti, in grado di molestare una pluralità di persone del vicino centro abitato, con conseguenze dannose quali le diffuse irritazioni agli occhi e alla gola, con conseguente più grave pericolo per la salute delle persone, per la loro esposizione a sostanze tossiche quali l’ammoniaca e l’acido solfidrico. In Adria, fino al 22.9.2014”.

La memoria ripercorre la giurisprudenza relativa a questa fattispecie di reato, evidenziando che:

“In conclusione, alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, può affermarsi che: a) l’evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità; b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il giudizio sulla esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando, come nel nostro caso, tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti”.

Si passa quindi alla descrizione di quanto, in concreto, in questi anni – secondo il capo di imputazione sino al 2016 – i residenti nei dintorni dell’impianto avrebbero patito, come testimoniato nel corso del dibattimento:

“I tanti testimoni sono stati in grado di descrivere il manifestarsi del fenomeno inquinante produttivo di sofferenze, patemi d’animo ed ansie legate alla preoccupazione per l’incolumità personale e della propria famiglia. In particolare, le parti civili e i testi indotti dalle stesse (si vedano le testimonianze assunte alle udienze del 12 e del 26 settembre 2018) hanno riferito di risiedere nella frazione Cà Emo da molti anni in immobili di proprietà distanti poche centinaia di metri in linea d’aria dallo stabilimento Co.Im.Po./Agri.Bio.Fert”. (…) Tale stato di cose ha avuto origine da quando, nel 1997, è entrato in funzione, nel sito predetto, l’impianto di stoccaggio e condizionamento fanghi. Nella condizione sopra descritta, i testi escussi al dibattimento hanno riferito di risvegli notturni con nausee, difficoltà respiratoria, spesso con conati vomito, in specie nella stagione estiva, tanto da costringerli, in alcuni casi, ad installare un climatizzatore presso la propria abitazione (in particolare, posizione Pilotto Roberta) in quanto all’epoca (anno 2000) chiudendo le finestre l’odore non penetrava nell’edificio. La situazione è tuttavia ulteriormente peggiorata nel corso degli anni successivi, in cui l’aria era diventata praticamente irrespirabile. I testimoni hanno riferito di fastidiosissimi odori di cavolo e uova marce, gas, acido, che si alternavano tra di loro e che si distinguevano nettamente da quelli provenienti dagli allevamenti di maiali presenti nelle vicinanze. Tali odori penetravano all’interno delle abitazioni nonostante le porte e le finestre fossero assolutamente chiuse, tanto da indurre alcuni proprietari degli immobili a cercare rimedi incollando dei paraspifferi lungo tutto il bordo delle porte per cercare di riparare l’abitazione da quei fastidiosi odori, senza tuttavia ottenere un miglioramento della qualità dell’aria che si respirava dentro casa. In tali condizioni, i testi hanno riferito del forte senso di vergogna che provavano con le persone che andavano a trovarli a casa e che non riuscivano a spiegarsi come fosse possibile sopportare tali odori”.

Nonostante le numerose richieste di intervento alle autorità preposte, la situazione non sarebbe cambiata, come illustra, proseguendo, la memoria:

“numerose sono state le segnalazioni agli Enti preposti al controllo, tra questi: a) l’ARPAV di Padova per segnalare la presenza di odori insopportabili che invadevano la Frazione di Cà Emo in diverse ore del giorno e della notte, rendendo impossibile il normale respiro, andare in giro in bici, passeggiare, uscire di casa per andare al bar e persino aprire le finestre al mattino per far cambiare l’aria dell’abitazione, senza tuttavia ricevere riscontro alcuno; b) l’ARPAV di Rovigo per spiegare che a Cà Emo era ormai divenuto impossibile vivere, dormire, mangiare, e per lamentare bruciori al naso, alla gola e agli occhi. Le risposte ricevute dagli Enti preposti al controllo sono state nel senso che la carenza delle risorse a disposizione non consentiva il monitoraggio del territorio, con l’invito a rivolgersi al Sindaco quale autorità preposta alla tutela della salute pubblica. Tentativo, quest’ultimo, che molti testimoni hanno riferito di aver esperito invano”.

Viene quindi illustrato come, alla luce dei rilievi del consulente della parte civile, una situazione di questo tipo avrebbe dovuto portare, da parte dei vertici aziendali, a una strategia di contenimento delle emissioni:

“I livelli di molestia olfattiva provocati da tali concentrazioni sono assolutamente percepibili dal naso umano come valori non tollerabili, di centinaia di migliaia di volte superiori alla soglia di percezione olfattiva. Non si capisce quindi come sia stato possibile, da parte di Agribiofert, dichiarare l’assenza di emissioni olfattive legate a emissioni diffusive dalle vasche, ne come gli Enti di controllo siano arrivati solo al 2014 a far autocertificare (Studio COIMPO del luglio 2014) le emissioni diffusive odorigene. Tali rilievi avrebbero dovuto comportare immediate misure di contenimento delle emissioni, in primis a tutela dei lavoratori, esposti a concentrazioni di acido solfidrico sicuramente dannose per la salute in relazione ai tempi di esposizione sul luogo di lavoro, ed in secondo luogo per limitare la molestia olfattiva alle popolazioni circostanti gli impianti”. In sintesi, può dirsi processualmente provato che, nel corso degli anni, ed anche dopo l’incidente del settembre 2014, numerosi abitanti della frazione di Cà Emo hanno subito, per effetto delle molestie olfattive promananti dall’impianto di cui al capo d’imputazione, un significativo degrado della propria qualità di vita oltre che un grave turbamento fisico e psichico derivante dall’esposizione prolungata nel tempo a forti odori e dal timore di vedere compromessa la propria salute e quella dei propri familiari”.

 

 

Condividi sui social