Una vittoria, al Tar, Tribunale amministrativo regionale, del Veneto, ottenuta dall’avvocato Matteo Ceruti, promotore della rete professionale Lpteam, che assisteva le associazioni animaliste Lav ed Essere animali, oltre che alcuni privati, arrivata a proposito di un argomento che aveva acceso il dibattito in Polesine e, per la precisione, a Villadose. Qui, infatti, si era insediato, tra le polemiche, un allevamento di visoni.

I ricorrenti avevano impugnato le autorizzazioni che erano state rilasciate, per l’insediamento, da parte del Comune di Villadose, la Regione del Veneto, , l’Ulss 5. Controparte era, ovviamente, anche l’azienda agricola titolare dell’allevamento.


Tra le richieste che venivano presentate dai ricorrenti ai giudici amministrativi il riconoscimento della illegittimità della richiesta, da parte dell’azienda agricola, di trasformare i fabbricati esistenti in maniera da renderli idonei ad accogliere l’allevamento (in origine la struttura era un allevamento di bovini), con conseguente “obbligo dell’Amministrazione comunale di adottare le misure inibitorie dei lavori e
delle attività assentite nonché di ripristino delle opere illegittimamente eseguite; nonché per la condanna dell’Amministrazione comunale di Villadose a procedere con l’adozione delle conseguenti misure inibitorie dei lavori e delle attività assentite nonché di ripristino delle opere eseguite”
.

Inoltre, si paventavano problemi anche per quanto concerneva la classificazione dell’allevamento che si sarebbe dovuto andare a realizzare, in particolare la nota del 25.08.2017, a firma del Sindaco del Comune di Villadose, “recante comunicazione ai ricorrenti che ‘l’attività di allevamento visoni, trattandosi di industria insalubre della medesima tipologia preesistente e ponendosi con essa in continuità, non necessita di nuova classificazione in quanto trattasi di mera modifica di specie
allevata’”
.

Tra gli argomenti sollevati dai ricorrenti, il fatto che, in zona agricola, risultino ammessi solo interventi edilizi funzionali all’attività, agricola, ossia che mantengano un nesso funzionale con questa. Ma non solo: secondo i ricorrenti l’allevamento ha tutti i requisiti della intensività, così da dovere mantenere una distanza minima dalle abitazioni superiore a quella in realtà sussistente. Inoltre, altri problemi sarebbero stati da riscontrare in relazione alla concimaia, così come all’utilizzo che si sarebbe fatto delle deiezioni degli animali. Ancora: l’attività avrebbe avuto tutte le caratteristiche della industria insalubre, così che “il soggetto responsabile dell’insediamento prima dell’inizio attività deve comunicare se l’attività rientra o meno nell’elenco delle industrie insalubri e quali siano le cautele adottate al fine di tutelare la salute pubblica e il Comune, sentita l’Asl, è tenuto a confermare o meno la classificazione di industria insalubre mentre spetta al Sindaco, sentita l’Asl, vietare l’attività o assoggettarla a particolari cautele; solo all’esito di questi passaggi procedimentali l’industria insalubre può essere permessa; nulla di tutto ciò è avvenuto nel caso di specie in cui il Comune ha consentito l’avvio dell’attività senza lo svolgimento degli adempimenti previsti dal citato art. 216”.

Parimenti, ci sarebbero lacune nella valutazione dell’impatto acustico e odorigeno della attività, col ricorso che poi contesta anche la “contraddittorietà, illogicità, perplessità e carenza di istruttoria in relazione alla verifica, preannunciata ed avviata ma mai conclusa, circa l’impatto igienicosanitario ed ambientale dell’allevamento di visoni perché i controlli connessi all’ascrivibilità dell’attività nel novero delle industrie insalubri sono stati illegittimamente svolti solo successivamente alla formazione del titolo abilitativo necessario all’avvio dell’attività, e si sono conclusi favorevolmente nonostante l’assenza dei pareri di competenza dell’Ulss e dell’Arpav che nel corso dell’istruttoria hanno affermato di non avere elementi sufficienti per esprimersi per le parti di propria competenza”.

Inoltre, ai sensi della normativa di riferimento per le industrie insalubri, la ditta “15 giorni prima dell’avvio dell’attività aveva l’obbligo di inviare al Comune un’apposita comunicazione indicando le speciali cautele adottate per non arrecare pregiudizi alla popolazione residente nelle vicinanze, con conseguente dovere del Sindaco di vietare l’attività ovvero di assoggettarla a particolari cautele, ma risulta che l’attività sia stata avviata almeno dall’ottobre 2016, ben prima dell’invio dell’avviso di attivazione della lavorazione insalubre con allegata comunicazione di avvio del ciclo produttivo avvenuto solo in data 2 febbraio 2017”.

Superate le questioni di ammissibilità, che hanno escluso Essere Animali, ma non Lav, lasciando quindi in essere il ricorso, i giudici hanno concluso che “Il ricorso introduttivo ed i motivi aggiunti sono fondati e devono
essere accolti perché dalla documentazione versata in atti risultano effettivamente molteplici carenze istruttorie nelle verifiche svolte dall’Amministrazione
. E’ fondato il primo motivo, con il quale i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 44 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, della deliberazione della Giunta regionale n. 856 del 15 maggio 2012, e la carenza di istruttoria. Il Comune infatti non ha qualificato l’allevamento come intensivo, non applicando pertanto la disciplina sulle distanze dalle abitazioni prevista per gli allevamenti intensivi dalla deliberazione della Giunta regionale n. 856 del 15 maggio 2012 (risultano esservi delle prime case di residenza alla distanza di 45 m dall’allevamento, e nella fascia di rispetto di 200 m sono presenti circa 25 unità immobiliari abitative), e commettendo una serie di errori di valutazione in ordine
alla documentazione depositata dal controinteressato per comprovare l’esistenza del nesso funzionale con il fondo. Come risulta dalla relazione tecnica depositata in giudizio dai ricorrenti (cfr. doc. 24 allegato al ricorso), con riferimento alle unità foraggere non risulta possibile calcolarne l’effettivo ammontare in quanto non è riportato l’elenco delle particelle
catastali in conduzione e non sono state in proposito richieste delle integrazioni documentali; nella relazione agronomica prodotta dal controinteressato è riportata correttamente la quantità massima per ettaro di azoto di origine zootecnica apportabile in Zona Vulnerabile ai Nitrati (170 kg/ha), ma senza alcun riferimento al piano colturale necessario e quindi senza tener conto delle diverse superfici necessarie a seconda del diverso tipo di specie agraria coltivabile (ad esempio in caso di Mais o Soia sono necessarie superfici ben maggiori di quelle indicate)”
.


“Inoltre, con riguardo a quest’ultimo punto, vi sono anche degli elementi di
contraddittorietà perché a volte la controinteressata afferma che vi sarebbe stata un’ottimizzazione degli stoccaggi e distribuzione delle deiezioni anche su suoli non di proprietà, per dimostrare la sussistenza del nesso funzionale con il fondo, in altri punti afferma che le deiezioni sarebbero state conferite per essere smaltite da ditte specializzate come rifiuti, e non risulta esser stato presentato alcun piano di utilizzazione agronomica. Queste molteplici carenze istruttorie, evidenziate nel ricorso, trovano inoltre oggi una esplicita conferma nella documentazione depositata in atti dai ricorrenti e, in particolare, nella relazione del 4 dicembre 2018 della Regione dei Carabinieri Forestali del Veneto (cfr. doc. 8.1 dell’elenco depositato in giudizio dai ricorrenti il 25 luglio 2019) in cui si sottolinea la mancata allegazione da parte della controinteressata di elementi idonei a dimostrare la natura non intensiva dell’allevamento giungendo alla conclusione che “l’allevatore infatti non ha e non aveva neppure in passato l’intenzione di distribuire su qualsivoglia terreno gli effluenti di allevamenti prodotto dai visoni”
.

“In tal senso depone altresì la nota di Avepa del 19 dicembre 2018 (cfr. doc. 8.4 dell’elenco depositato dai ricorrenti il 25 luglio 2019) indirizzata al Corpo Forestale dei Carabinieri che conferma la mancata richiesta da parte del Comune di alcun parere relativo al Piano aziendale, che sarebbe stata obbligatoria ai sensi dell’art. 44 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, avente ad oggetto le segnalazioni certificate di inizio attività in base alle quali è stato attivato l’allevamento”.

“E’ fondato proseguono i giudici anche il secondo motivo, con il quale i ricorrenti lamentano carenze istruttorie in ordine alla verifica di conformità delle strutture di stoccaggio degli effluenti di allevamento, perché non è stata attestata la conformità della concimaia alle caratteristiche tecniche previste dalla normativa di settore, così come non è stata svolta alcuna verifica sulle modalità di stoccaggio temporaneo dei reflui da conferire a terzi per essere smaltiti”.

“Parimenti fondato è il quarto motivo del ricorso introduttivo. Infatti, trattandosi di industria insalubre di prima classe, il controinteressato avrebbe dovuto comunicare 15 giorni prima dell’inizio dell’attività l’avvio della stessa, mentre da un documento proveniente dallo stesso controinteressato (cfr. la nota del 10 luglio 2017 di cui al doc. 22 dell’elenco documenti depositato con i motivi aggiunti) risulta che l’allevamento “esiste almeno dal mese di ottobre 2016”, in una data antecedente a qualsiasi verifica di tipo igienico sanitario.

“Si rivela fondato anche il settimo motivo, con il quale i ricorrenti lamentano la mancata valutazione degli impatti odorigeni inizialmente richiesta dal Comune, ma successivamente non più acquisita, nonostante la nota Arpav del 14 giugno 2017 (cfr. doc. 19 allegato ai motivi aggiunti) attesti che il valore medio di animali presente per anno, comporta emissioni, con i visoni al posto dei bovini, maggiori a prima (13.000 kg a-1 di NMVOC, mentre in precedenza l’emissione era pari a 1.620 kg a-1 di NMVOC)”.

“Parimenti fondati sono anche i tre motivi dell’atto di motivi aggiunti, che possono essere valutati congiuntamente, che documentano un macroscopico difetto di istruttoria. Infatti l’attività è stata avviata in violazione delle procedure previste per le industrie insalubri, senza una valutazione di carattere preventivo. Tuttavia le verifiche necessarie non sono state svolte neanche successivamente. Il Comune ha chiesto all’Ulss e all’Arpav i pareri necessari sotto il profilo igienico sanitario ed ambientale e, a fronte del rifiuto di questi enti di rendere i pareri a
causa dell’insufficienza della documentazione prodotta e che il controinteressato ha espressamente rifiutato di esibire, il Comune ha ritenuto di prescinderne in base all’argomento che non si trattava di una nuova classificazione in quanto vi era continuità con il precedente allevamento e che non sono state evidenziate situazioni di imminente pericolo per la salute pubblica. Tuttavia è emerso che neppure il precedente allevamento era mai stato classificato, e pertanto le valutazioni di carattere igienico sanitario non risultano essere mai state svolte dai competenti organi tecnici
.

Da qui la decisione finale: annullamento delle autorizzazioni e trasmissioni degli atti alla Procura affinché valuti se, nella vicenda, vi siano estremi di rilevanza penale.

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