“Da un lato, c’è la soddisfazione di vedere messo un punto fermo in una vicenda lunga e dolorosa. Dall’altro, l’amarezza che deriva dal fatto che siano state necessarie quattro morti per fare emergere una situazione di irregolarità e di pericolo diffusi”. Questi i sentimenti degli avvocati di parte civile Matteo Ceruti (per Legambiente, Wwf, sei famiglie di Ca’ Emo), Claudio Maruzzi (per un lavoratore che scampò alla morte solo per l’intervento di Rossano Stocco, che lo portò in salvo), Carmelo Marcello (per cinque famiglie residenti a Ca’ Emo), Cristina Guasti (per Italia Nostra e cinque famiglie di Ca’ Emo) e Marco Casellato (per 10 famiglie di Ca’ Emo), tutti componenti della rete professionale Lpteam, dopo la sentenza che ha chiuso il processo di primo grado sul caso Coimpo.

Sono arrivate sei condanne e due assoluzioni, con l’ipotesi di reato principale di omicidio colposo che ha retto per tutti e sei gli imputati, così come quella di getto pericoloso di cose, alla base della costituzione di parte civile di ben 26 famiglie residenti a Ca’ Emo, Adria, costituite parte civile con i vari avvocati della rete professionale Lpteam. Per 24 è stata già determinata una provvisionale di 6mila euro a testa, per altre due la quantificazione del risarcimento verrà disposta dal giudice civile.

Importanti anche i risarcimenti ottenuti, sempre sotto forma di provvisionali immediatamente esecutive, dalle associazioni ambientaliste Legambiente (20mila euro), Wwf (10mila euro), Italia Nostra (10mila euro).

Per il lavoratore che quel giorno rischiò la vita, seguito dall’avvocato Claudio Maruzzi, è arrivata una provvisionale immediatamente esecutiva di 30mila euro.
 
Incentrato, cioè, sulla tragedia sul lavoro che, il 22 settembre del 2014, vide quattro persone venire fulminate da una nube tossica nello stabilimento delle ditte Coimpo – Agribiofert, in località America, Ca’ Emo, Comune di Adria. Un sito nel quale venivano trattati fanghi, industriali e da depurazione, perché potessero poi essere smaltiti, sotto forma di spandimenti sui terreni agricoli, come fertilizzante.
 
Quel giorno, a quanto emerso in aula, durante lo sversamento di acido solforico concentrato sui fanghi contenuti nella “Vasca D” di Agribiofert, si innescò una reazione chimica che generò, appunto, la nube tossica. Morì per primo Giuseppe Baldan, 48 anni, di Campolongo Maggiore, l’autotrasportatore che aveva portato la cisterna di acido. Capì che qualcosa non stava andando per il verso giusto, cercò di interrompere l’erogazione, ma venne fulminato. Poi toccò a Nicolò Bellato, 28 anni, di Bellombra, e Marco Berti, 47 anni, di Sant’Apollinare: arrivarono a bordo di un pick up per salvare Baldan, morirono anche loro; infine, Paolo Valesella, 53 anni, di Adria, operaio Coimpo, raggiunto mentre stava scappando e stroncato all’istante.
 
“Riteniamo – proseguono i legali – che già la consulenza disposta dal giudice avesse perfettamente fotografato quanto sosteniamo dall’inizio di questa devastante vicenda: ossia che in quell’impianto le lavorazioni avvenivano in maniera difforme da quella autorizzata, con grave rischio, purtroppo concretizzatosi in maniera tanto grave, per i dipendenti. Ma anche per chi viveva nelle vicinanze: non dimentichiamo che, come emerso nel corso dell’istruttoria, quel giorno per fortuna il vento portò la nube in aperta campagna, a rarefarsi. Se, invece, la avesse condotta all’abitato di Ca’ Emo, il bilancio avrebbe potuto essere ancora peggiore”.

“Il dispositivo ci fa capire una cosa importante – spiegano – Nella gestione di questa azienda ha sicuramente prevalso la logica del profitto su quella della difesa dell’uomo, del lavoratore, del bene ambiente. Ci aspettavamo una sentenza di condanna, perché le prove andavano in questa direzione. Per noi era importante che venisse riconosciuta la responsabilità di chi ha gestito l’azienda in questa maniera. Riteniamo di dovere dare un grande merito al giudice che da solo, come giudice monocratico, ha saputo imprimere ritmi veloci, efficienti e impegnativi al procedimento, che hanno consentito di arrivare a sentenza in tempi celeri, per un reato contravvenzionale, ma molto importante per le persone che vivono nelle vicinanze. Le loro legittime aspettative sono state soddisfatte”.

“E’ giunto a conclusione un processo emblematico, di come una cattiva gestione di un impianto di trattamento di rifiuti possa essere pericolosa per una comunità e possa portare a delle vittime tra i lavoratori. Emblematico anche perché evidenzia come le molestie olfattive, in determinati casi, possano essere il segnale di una situazione di pericolo”. 
 
“E’ stato un processo lungo e difficile – chiudono i legali – ma che, alla fine, crediamo abbia messo bene in evidenza una situazione di pericolo e di irregolarità che si è protratta per anni, senza interventi di sorta, cessata unicamente dopo una delle peggiori tragedie sul lavoro della storia del Polesine”.

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