Una recentissima pronuncia del Tribunale di Trieste ha riacceso una mai sopita questione relativa all’esistenza del diritto all’eutanasia. Ad affrontare la tematica, l’avvocato Mario Martinelli e il collega Francesco Pocorobba, dello Studio Legale Martinelli e Bianchin, della rete professionale Lpteam.
Quella in esame, in realtà, è solo l’ultima vicenda legata all’esistenza – o meno – del diritto a morire: lo squarcio apertosi con il noto “caso Welby”[1] nei primi anni 2000 ha condotto al riconoscimento del diritto del paziente a rifiutare le cure mediche con lo scopo di lasciarsi morire; da allora la magistratura è stata spesso investita di questioni relative a pazienti a cui non veniva reso possibile l’esercizio di tale diritto o di soggetti che agevolavano l’intento suicida del malato, accompagnandolo in apposite strutture estere.
Premesse: le pronunce della Corte Costituzionale 2018 e 2019
La questione è certamente molto complessa, in quanto – oltre che da un punto di vista etico – si palesano molteplici profili critici anche da un punto di vista giuridico: vengono in luce, infatti, il riconoscimento del diritto in capo al paziente di imporre al personale medico la sospensione delle cure (o addirittura la consegna di un farmaco letale, con le ovvie questioni relative all’obiezione di coscienza), e la condotta del soggetto che materialmente agevola il suicidio, posto che l’art. 580 del Codice penale punisce “chiunque ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione”[2].
Di tali complesse questioni è stata investita la Corte Costituzionale, che con ordinanza n. 207/2018 e sentenza n. 242/2019 (cd. Sentenza Cappato) ha enucleato i principi fondamentali in tema di autodeterminazione, libertà e dignità personale e, sotto il profilo penalistico, di responsabilità di chi agevola il proposito suicidario.
Tali pronunce, conformandosi all’interpretazione estensiva della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in merito all’art. 8 della convenzione EDU[3], hanno statuito che ogni cittadino abbia il diritto di decidere quando e in quale modo debba finire la propria vita.
Il giudice costituzionale ha disposto che, per poter validamente esercitare il diritto al suicidio assistito, il paziente deve possedere i seguenti requisiti:
1- deve essere soggetto ad una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili;
2- deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e, nonostante ciò, deve comunque essere in grado di prendere decisioni libere e consapevoli.
Malgrado il diritto a morire sia stato espressamente riconosciuto dalle sopra menzionate pronunce della Corte Costituzionale, rimangono numerosi problemi applicativi posti innanzitutto dalla mancanza di una normativa che individui i soggetti chiamati a verificare i requisiti suesposti (problema a cui la Corte ha temporaneamente posto una soluzione, come si vedrà in seguito) e soprattutto dall’impossibilità del paziente di scegliere le specifiche modalità con cui porre fine alla propria vita.
Il paziente, infatti, ai sensi dell’unica normativa in materia (la l. 219/2017 [4]), qualora scelga di rifiutare o interrompere i trattamenti di sostegno vitale (ad esempio respirazione e/o alimentazione e idratazione artificiale), viene sottoposto a sedazione palliativa profonda continua con terapia del dolore, le quali rendono impossibile ogni manifestazione di volontà fino a quando non sopraggiunga la morte per cause naturali.
Tale normativa presta il fianco a censure significative: in primo luogo pone il paziente nella condizione di dover attendere – e far attendere i propri cari – anche diversi giorni affinché sopraggiunga la morte, circostanza evidentemente lesiva della dignità del paziente; in secondo luogo pregiudica il diritto all’autodeterminazione dello stesso, il quale dovrebbe essere cosciente – se lo desidera – “fino ad un momento quanto più possibile vicino alla propria morte”[5], anche in considerazione di un possibile mutamento di volontà, esercitabile in qualunque momento.
Per tali ragioni la Corte Costituzionale ha ritenuto che la mancanza di un’alternativa alla sedazione palliativa profonda leda i diritti fondamentali dell’individuo circa la libertà di scelta delle terapie, “comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”, e che tale ingiustificata univoca modalità di eutanasia si traduca nella “lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”[6].
Come già accennato, a causa della mancanza di una specifica norma sul punto, il Giudice delle leggi è intervenuto anche sull’identificazione dei soggetti chiamati a verificare la sussistenza dei requisiti per poter accedere al suicidio assistito, compito affidato a strutture pubbliche del SSN, le quali dovranno anche individuare specifiche modalità di esecuzione dello stesso, tali da assicurare una morte dignitosa, rapida e indolore.
È inoltre posto “a tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità” e a garanzia “dei diritti e dei valori della persona” un organo collegiale terzo con funzioni consultive, chiamato “Comitato Etico”, il quale dovrà avallare il parere espresso dall’ente del SSN circa l’idoneità del soggetto ad accedere al suicidio assistito e alle specifiche modalità di esecuzione. In considerazione del vuoto normativo relativo agli enti chiamati a svolgere tale funzione, è stato previsto che il Comitato Etico competente sia l’ente che esercita la consulenza in materia di sperimentazioni cliniche di medicinali.
In ultima battuta la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità dei soggetti che agevolino il proposito suicidario del paziente il quale, possegga i requisiti per poter accedere al suicidio assistito, abbia espresso libera volontà di porre fine alla sua vita, e abbia ottenuto parere positivo del Comitato Etico alle procedure proposte dalla struttura del SSN.
La portata delle pronunce Costituzionali appena esaminate è senz’altro ampia, e può essere riassunta nei seguenti termini: nel caso in cui un paziente affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze psicologiche e fisiche insopportabili, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, abbia espresso consapevolmente e liberamente la decisione di rifiutare o interrompere i trattamenti medici posti a salvaguardia della sua vita, deve poter accedere a metodi di eutanasia anche differenti dalla sedazione palliativa profonda. Specificamente, il paziente può scegliere di assumere farmaci che lo conducano ad una morte certa, rapida e indolore, e l’indicazione di tali farmaci, metodi di assunzione e quantità, nonché la relativa consegna deve avvenire da una struttura pubblica del SSN, che prima di offrirli al paziente deve ottenere il parere positivo del Comitato Etico al quale la struttura sanitaria deve adeguarsi, salvo discostamento motivato.
È comunque fatta salva la possibilità in capo ad ogni medico di fare obiezione di coscienza.
L’ordinanza del Tribunale di Trieste
La vicenda muove dal ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da una paziente irreversibilmente malata di sclerosi multipla, intenzionata ad accedere alle procedure di suicidio assistito.
La ricorrente lamenta la condotta omissiva dell’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (ASUGI) circa l’avvio della procedura per l’accertamento delle condizioni delineate dalla Corte Costituzionale per potere accedere al suicidio assistito, oltre che la mancata individuazione del farmaco letale e l’omessa determinazione delle relative modalità di somministrazione.
Il Tribunale di Trieste ha ritenuto fondato il ricorso della paziente e, aderendo ai precetti costituzionali, ha osservato che sussiste un rapporto contrattuale di spedalità tra la ricorrente ed ASUGI, tale per cui “devono essere offerti alla paziente tutti i trattamenti sanitari a tutela del suo diritto alla salute, tra cui rientrano quelli di fine vita, nel caso in cui ricorrano i presupposti”. Il mancato accertamento della sussistenza dei requisiti per poter accedere al suicidio assistito richiesto dal paziente, così come l’inerzia e/o il rifiuto della struttura del SSN di individuare il farmaco letale, comporta, pertanto, la responsabilità della stessa per inadempimento contrattuale.
Sulla base di tali argomentazioni, il Tribunale di Trieste, con ordinanza del 04.07.2023, ha imposto all’ASUGI di dar seguito – entro 30 giorni – all’iter di verifica dei requisiti della ricorrente, affinché essa possa accedere al suicidio assistito, condannando l’ente del SSN a pagare la somma di € 500,00 al giorno qualora non adempia entro il termine indicato.
Il Giudice Friulano, tuttavia, non ha accolto la richiesta di condanna dell’ASUGI all’individuazione del farmaco letale avanzata dalla ricorrente, in quanto la verifica dei presupposti per l’eutanasia assume carattere preliminare alla scelta del tipo di farmaco da somministrare; quest’ultimo, pertanto, potrà (e dovrà) essere individuato solo dopo che l’indagine sul rispetto dei requisiti abbia dato esito positivo.
In seguito alla pronuncia, l’ASUGI ha avviato il procedimento di verifica dei requisiti della paziente che, una volta ottenuto il parere favorevole del Comitato Etico, si è autosomministrata il farmaco letale consegnatole dal Servizio Sanitario Nazionale, spirando il 28 novembre 2023.
Il diritto a morire dignitosamente, scegliendone anche le metodologie, è dunque riconosciuto in Italia ai pazienti che posseggono determinati requisiti anche in virtù della pronuncia del Tribunale di Trieste. La portata di tale ordinanza, tuttavia, assume particolare rilievo in quanto è proprio lo Stato ad aver agevolato l’intento suicida del paziente. Ciononostante, come evidenziato dalla Corte Costituzionale, è necessario che il Parlamento intervenga sul punto, affinché il ricorso ad uno strumento così delicato come il suicidio assistito non sia disciplinato da orientamenti giurisprudenziali, bensì si fondi su procedure stabilite normativamente.
[1] Per una panoramica sul “Caso Welby” si veda https://www.associazionelucacoscioni.it/il-caso-giuridico-di-piergiorgio-welby
[2] Articolo dichiarato incostituzionale con sent. n. 242/2019 nella parte in cui “punisce la condotta di chi abbia agevolato l’esecuzione della volontà, liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l’agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari”.
[3] Per approfondimenti relativi al percorso interpretativo della Corte EDU in merito all’art. 8 co. 1 Cedu si vedano le sentenze Pretty vs. The United Kingdom; Haas vs. Switzerland; Koch vs Germany.
[4] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/16/18G00006/sg
[5] Tribunale Trieste, Sez. Civile, composizione monocratica, Dott. Edoardo Sirza, ordinanza del 04.07.2023, pag. 9
[6] Corte Costituzionale, ordinanza 207/2018 pag. 15