“Mio figlio ha quasi 30 anni e vive con la madre: per quanto tempo dovrò ancora mantenerlo?”. Questa è una domanda che sovente viene rivolta dai clienti all’interno degli studi legali, soprattutto quando il figlio di cui si tratta è oramai divenuto adulto e, a causa dell’intervenuto divorzio fra i genitori, convive con uno solo di essi e l’assegno di mantenimento continua ad essere percepito dal genitore convivente.

Orbene, è opinione condivisa in dottrina e giurisprudenza che non sussista un’età anagrafica prestabilita, al compimento della quale l’obbligo del contributo al mantenimento nei confronti del figlio, divenuto ormai maggiorenne, da parte del genitore separato o divorziato venga legittimamente meno, ma che ogni caso debba essere valutato a sé, in relazione alle specifiche circostanze.

Criterio discretivo è, certamente, la raggiunta autonomia economica del figlio, ovvero l’adeguata capacità di conseguire reddito, tenuto conto della professionalità posseduta e delle condizioni di mercato del momento storico.

E’ – pure – opinione condivisa in dottrina e giurisprudenza che sia onere del  genitore, che intenda sottrarsi all’obbligo del mantenimento, offrire la prova della raggiunta autonomia economica del figlio divenuto maggiorenne o, diversamente, dell’inerzia colpevole dello stesso nella ricerca di un lavoro compatibile con le proprie attitudini e competenze professionali o, ancora peggio, del rifiuto da parte dello stesso di impegnarsi in qualsivoglia occupazione lavorativa.

Atteso che la domanda di cui sopra (ovvero quando il genitore possa legittimamente chiedere di sottrarsi all’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne) viene più spesso formulata dal genitore separato-divorziato non convivente con il figlio che, a seconda dei casi, non è sempre a conoscenza della sussistenza o meno di un effettivo impegno da parte di quest’ultimo nella ricerca di un’occupazione (soprattutto se le frequentazioni sono poco assidue per scarso interesse o a causa dei rapporti non proprio distesi con l’ex coniuge collocatario), in dottrina e giurisprudenza si ritiene che questa prova ( di per sé diabolica) possa essere offerta anche per presunzioni.

Ed è proprio in quest’ ottica, al fine di evitare che un genitore sia destinato a mantenere il proprio figlio sine die, che si è consolidato un unanime orientamento giurisprudenziale a mente del quale il compimento dei trent’anni (o super giù) rappresenti uno spartiacque tra il ruolo di “figlio” – che può, a seconda delle circostanze rigorosamente verificate, aver diritto al mantenimento – e quello di “adulto”, semmai meritevole di far valere il diritto ex art. 433 c.c., ovvero quello di ricevere prestazioni di assistenza materiale di prima necessità laddove versi in uno stato di accertato bisogno economico.

Ciò è motivato sulla base del dovere di autoresponsabilità del figlio maggiorenne, che non può pretendere la protrazione dell’obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura perchè “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione” ( cfr. Cass. 18076/2014 e Cass. SSUU n. 20448/2014 e, più di recente, Trib. Rovigo, n. 357/2020 VG).

Questa la ratio della norma che ha ispirato il legislatore nel disciplinare l’obbligo contributivo di cui all’art. 337 septies c.c..

Il perimetro temporale della contribuzione è legata, dunque, ad un progetto educativo e ad un percorso di formazione che, al compimento dei trent’anni, è da ritenersi compiuto (per presunzione), a prescindere dagli obiettivi in concreto raggiunti da ciascun figlio, diventato ormai un adulto.

Al di là di questo perimetro potranno intervenire, laddove ne sussistano i presupposti, altre tutele previste dalla legge, come sopra detto ( il diritto agli alimenti, per l’appunto).

E’ rimesso al Giudicante valutare con particolare rigore le peculiari circostanze del caso in concreto prima di accogliere o rigettare una domanda volta alla revoca o al perseguimento dell’obbligo al contributo nel mantenimento.

Facciamo alcuni esempi, mutuati dalla giurisprudenza in materia: prendiamo il caso di un figlio il quale abbia completato il proprio percorso di studi con la laurea ed abbia in animo di intraprendere un master che gli consentirà di conseguire delle specifiche competenze che gli permetteranno, con grande probabilità di successo, di accedere al mondo del lavoro. Orbene, in casi come questi, è stata rigettata la richiesta di revoca del contributo al mantenimento, in quanto il sostegno economico del genitore si inserisce nell’ambito del più ampio progetto formativo cui i genitori sono tenuti, ed al quale faceva cenno il principio enunciato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza sopra citata. Sul presupposto che le condizioni economiche dell’obbligato lo consentano, naturalmente.

Ciò non significa che i genitori siano tenuti senza alcun limite ad assecondare qualsivoglia aspirazione o velleità dei figli, anche se finalizzata al conseguimento di una posizione migliore nel campo del lavoro.  

La richiesta del figlio non sarà più ritenuta giustificata quando, pur non potendo godere di una posizione lavorativa stabile e pur potendo sempre migliorare il bagaglio delle proprie competenze frequentando ulteriori corsi di specializzazione, abbia comunque conseguito titoli  sufficienti a consentigli un posizionamento professionale anche se, per il momento, non del tutto soddisfacente.

Al contrario, sono frequenti anche i casi in cui il figlio, pur ormai adulto, non abbia concluso il percorso scolastico ( ad esempio, si sia limitato alla scuola dell’obbligo), né abbia provveduto a conseguire altra abilitazione che gli permetta di spendere una qualche competenza specifica nel mondo del lavoro, eppure continui a percepire da parte del genitore non convivente un contributo al mantenimento. La domanda frequentemente posta è se, in questi casi, di fronte ad un percorso formativo “poco proficuo”, l’obbligo del genitore debba protrarsi sine die, o comunque non abbia legittimamente a concludersi con il raggiungimento, quantomeno, dei trent’anni di età.

Di recente, un Tribunale del Veneto ( Tribunale di Verona, sez. I Civile, sentenza depositata il 26 settembre 2019) ha ritenuto che, a fronte di un percorso “poco proficuo” dei figli, l’obbligo del genitore separato non convivente debba ritenersi concluso ancorché gli stessi non abbiano ancora raggiunto la trentina  (24 anni lui, solo con licenza della scuola dell’obbligo, senza lavoro, che, peraltro, non aveva mai cercato e 22 anni lei, ancora alle scuole superiori).

Va da sé che la tipologia di occupazione al quale un figlio potrà aspirare sarà parametrata al tipo di formazione conseguita nonché, è necessario evidenziarlo, all’offerta di lavoro di un determinato momento storico.

Sulle caratteristiche che l’impiego debba avere affinché il genitore possa dirsi sollevato dal suo onere non vi è, però, uniformità di pensiero in giurisprudenza. Vi sono Tribunali che si sono espressi nel senso di riconoscere sufficiente la sottoscrizione di un contratto di lavoro, seppur a tempo determinato, ed altri Tribunali che hanno ritenuto un contratto di tal genere insufficiente. Si rammenta un recente pronuncia della Corte di Cassazione (Sez. I civile, n. 12063/2017) a mente della quale il contratto a tempo determinato è certamente una causa legittimamente la revoca del contributo al mantenimento atteso che il figlio divenuto maggiorenne ha in tal modo dimostrato di possedere la capacità di essere remunerato grazie alla propria professionalità.

Sullo stesso piano, recente giurisprudenza si è orientata nel senso di ritenere che si debba considerare economicamente autosufficiente il figlio che svolge lavori, anche stagionali, o a tempo determinato, ovvero con prestazioni o progetti occasionali ma continuativi, dovendosi considerare, solo in virtù di questo, economicamente autosufficiente ( cfr. Corte di Appello di Catania, 3.11.2016, richiamata da Trib. Ancona, Sez. I, 23.4.2009, n. 817).

Certamente – ed in questo senso vi è unanimità di pensiero da parte dei giudici di legittimità e di merito – non può essere giustificazione idonea a fondare la richiesta di  recupero del perduto mantenimento quella della cessazione del rapporto di lavoro, anche a tempo determinato, per intervenuto licenziamento, trattandosi di circostanza che non può far rivivere l’obbligo di mantenimento i cui presupposti sono già venuti mento ( vedasi Corte di Cassazione appena citata, Corte di Cassazione 1585/14  e Corte d’Appello di Catania, 26.11.2014).

Va, comunque, da sé che l’estinzione dell’obbligo di mantenimento, essa non potrà conseguire automaticamente al verificarsi di uno dei presupposti sopra citati, ma dovrà essere disposta a seguito di un giudizio di modifica delle condizioni di separazione o divorzio.  

Cristina Guasti

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