“Da un lato, c’è la soddisfazione di vedere messo un punto fermo in una vicenda lunga e dolorosa. Dall’altro, l’amarezza che deriva dal fatto che siano state necessarie quattro morti per fare emergere una situazione di irregolarità e di pericolo diffusi”. Questi i sentimenti degli avvocati di parte civile Matteo Ceruti, Claudio Maruzzi, Carmelo Marcello, Cristina Guasti e Marco Casellato, componenti della rete professionale Lpteam, che seguono privati cittadini e associazioni ambientaliste, dopo l’udienza dedicata alla superperizia che ha chiuso l’istruttoria del processo di primo grado sul caso Coimpo.


Incentrato, cioè, sulla tragedia sul lavoro che, il 22 settembre del 2014, vide quattro persone venire fulminate da una nube tossica nello stabilimento delle ditte Coimpo – Agribiofert, in località America, Ca’ Emo, Comune di Adria. Un sito nel quale venivano trattati fanghi, industriali e da depurazione, perché potessero poi essere smaltiti, sotto forma di spandimenti sui terreni agricoli, come fertilizzante.
Quel giorno, a quanto emerso in aula, durante lo sversamento di acido solforico concentrato sui fanghi contenuti nella “Vasca D” di Agribiofert, si innescò una reazione chimica che generò, appunto, la nube tossica. Morì per primo Giuseppe Baldan, 48 anni, di Campolongo Maggiore, l’autotrasportatore che aveva portato la cisterna di acido. Capì che qualcosa non stava andando per il verso giusto, cercò di interrompere l’erogazione, ma venne fulminato. Poi toccò a Nicolò Bellato, 28 anni, di Bellombra, e Marco Berti, 47 anni, di Sant’Apollinare: arrivarono a bordo di un pick up per salvare Baldan, morirono anche loro; infine, Paolo Valesella, 53 anni, di Adria, operaio Coimpo, raggiunto mentre stava scappando e stroncato all’istante.

“Riteniamo – proseguono i legali – che la consulenza disposta dal giudice abbia perfettamente fotografato quanto sosteniamo dall’inizio di questa devastante vicenda: ossia che in quell’impianto le lavorazioni avvenivano in maniera difforme da quella autorizzata, con grave rischio, purtroppo concretizzatosi in maniera tanto grave, per i dipendenti. Ma anche per chi viveva nelle vicinanze: non dimentichiamo che, come emerso nel corso dell’istruttoria, quel giorno per fortuna il vento portò la nube in aperta campagna, a rarefarsi. Se, invece, la avesse condotta all’abitato di Ca’ Emo, il bilancio avrebbe potuto essere ancora peggiore”.
Un altro punto emerso dalla perizia è quello dell’iter autorizzatorio al quale l’impianto venne, all’epoca, sottoposto dalla Provincia.

“Ne emerge un quadro non certo lusinghiero per la Provincia, con una istruttoria autorizzatoria che appare largamente deficitaria. I periti spiegano bene come le emissioni diffuse generate da un impianto del genere avrebbero dovuto essere normate e disciplinate in maniera ben diversa, come avveniva, negli stessi anni, in impianti analoghi in altre località italiane, dove queste lavorazioni erano confinate in ambienti chiusi, con apposite precauzioni per abbattere o aspirare via le emissioni, a tutela dei lavoratori”.

Ora, si aprono le porte della discussione che condurrà alla sentenza. Tre le udienze fissate, il 2, il 7 e il 9 ottobre. Quest’ultima dovrebbe vedere il giudice Nicoletta Stefanutti leggere il dispositivo. “E’ stato un processo lungo e difficile – chiudono i legali – ma che, alla fine, crediamo abbia messo bene in evidenza una situazione di pericolo e di irregolarità che si è protratta per anni, senza interventi di sorta, cessata unicamente dopo una delle peggiori tragedie sul lavoro della storia del Polesine”.

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