Dopo quasi 140 udienze, tra dibattimento e udienza preliminare, il 26 giugno scorso è stata emessa la sentenza del processo Pfas-Miteni.
Hanno retto le ipotesi di reato più gravi, in particolare quella di avvelenamento doloso delle acque destinate al consumo umano (art. 439 c.p.), che radicava la competenza del processo penale avanti la Corte d’Assise, a Vicenza. Così come quella di disastro innominato ambientale, anch’esso doloso (art. 434 c.p.), ma anche di inquinamento ambientale (punito dall’art. 452 bis c.p.).
E, per 11 dei 15 imputati, sono arrivate condanne che, a vario titolo, spaziano dai 2 anni e 8 mesi ai 17 anni e 6 mesi di reclusione, per una pena cumulativa nell’ordine dei 140 anni di reclusione. A questi, poi, vanno aggiunte le sanzioni accessorie. Allo stesso modo, sono stati riconosciuti risarcimenti nei confronti delle varie parti civili costituite, Ministeri dell’ambiente e della salute, Regione del Veneto, Comuni, gestori delle acque, consigli di bacino, sindacati, associazioni e privati cittadini residenti nell’area contaminata.
In particolare, a molte delle persone fisiche costituite parti civili è stato riconosciuto un risarcimento di € 15.000 ciascuna a titolo di danno non patrimoniale, e somme superiori a chi ha subito un danno patrimoniale.
Il dispositivo letto dal presidente della Corte d’Assise di Vicenza è stato più severo rispetto alla richiesta di pena, già di per sé certo non leggera, che aveva fatto seguito alla requisitoria dei pubblici ministeri, che avevano domandato la condanna per 9 dei 15 imputati: 121 anni e 6 mesi la richiesta totale di pena, a carico di ex manager ed ex vertici societari.
Si tratta di una sentenza di obiettiva rilevanza innanzitutto per l’estensione della contaminazione chimica provocata alle falde idriche del Veneto utilizzate a scopo potabile, una delle maggiori della storia, essendo stata inquinata la seconda falda idrica sotterranea più grande d’Europa, un territorio di 150 Km quadrati, con una popolazione interessata di 350 mila persone delle tre province di Vicenza, Verona e Padova.
La decisione ha avuto una vasta eco sulla stampa nazionale ma anche internazionale, anche perché si tratta della prima condanna penale per una contaminazione da Pfas di cui si ha notizia.
Un processo nel quale i legali di Lpteam erano presenti in forze, a supporto di circa 180 parti civili costituite. Erano infatti in aula Matteo Ceruti, promotore della rete professionale Lpteam, e i colleghi Cristina Guasti e Marco Casellato, componenti della rete. Assistevano diverse persone aderenti al movimento delle “Mamme No Pfas”. Si tratta di madri, padri, ragazzi e altri residenti nella zona rossa, che si sono sottoposti al biomonitoraggio, con esiti purtroppo positivi, ossia con il rilevamento di concentrazioni nel sangue di Pfoa (sostanza dichiarata cancerogena dall’Agenzia Internazionale per la ricerca sul Cancro dell’OMS) superiore ai valori di riferimento; in molti casi con patologie, secondo la letteratura, correlabili con l’esposizione a Pfas.
Proprio questi aspetti, riguardanti le possibili conseguenze sulla salute dell’inquinamento da Pfas, ma anche le condotte dolose degli imputati nonché l’attività di occultamento volta a tenere nascosta alle pubbliche autorità il più a lungo possibile questa gravissima emergenza, erano stati al centro della discussione dei legali Lpteam (VAI ALL’ARTICOLO).
Pur rimanendo in attesa del deposito della motivazione della sentenza (per la quale i giudici si sono presi 90 giorni di tempo), e ovviamente al netto dei ben prevedibili atti di impugnazione, si può già parlare di una pronuncia che è destinata a costituire un “leading case”, ossia un precedente giurisprudenziale di cui si dovrà tener conto nelle future vicende processuali in tema di contaminazione ambientale.
Gli imputati nel procedimento erano in tutto 15, i vertici e manager dell’azienda ritenuta responsabile dell’inquinamento da Pfas e delle importanti società che ne hanno avuto il controllo negli ultimi 30 anni.
Il dibattimento appena concluso era il frutto della riunione di due indagini, disposto dal giudice in sede di udienza preliminare. In particolare, il filone principale era quello che riguarda la contaminazione da Pfas a catena lunga (Pfoa e Pfos) che sarebbe avvenuta sino al 2013. Il secondo filone, invece, riguarda l’inquinamento ambientale conseguente alla contaminazione da Pfas a catena corta (GenX e C6O4) dal 2015 al 2018 (data del fallimento della società). In questo secondo filone erano ipotizzati anche reati fallimentari (art. 223, comma 2 L.F.), ossia relativi all’ipotesi di bancarotta e false comunicazioni (per non aver iscritto a bilancio le passività conseguenti alla nota situazione di contaminazione del sito e della falda), che sono andati quindi ad aggiungersi ai reati più strettamente ambientali.
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