L’avvocato Matteo Ceruti, promotore della rete professionale Lpteam, commenta, sulla rivista Rga Online, due pronunce del consiglio di Stato molto attese ed estremamente importanti, spingendosi anche a ragionare sulla sua applicazione in materia ambientale.

Riportiamo qui di seguito l’articolo integrale.

CONSIGLIO DI STATO, Ad. Plen. – 9 dicembre 2021, n. 22 – Pres. Patroni Griffi, Est. Simonetti – B. c/ Comune di Palermo e altri

Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo e in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato. L’interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso. L’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d’ufficio dal giudicante, nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a. Nelle cause in cui si lamenti l’illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l’annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo.

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CONSIGLIO DI STATO, Sez. IV – 9 febbraio 2022, n. 935 – Pres. Maruotti, Est. D’angelo – S. s.p.a. c/ Comune di Lastra a Signa e altri

Ai fini della sussistenza delle condizioni dell’azione avverso provvedimenti lesivi dal punto di vista ambientale, il criterio della vicinitas – ovvero il fatto che i ricorrenti vivano abitualmente in prossimità del sito prescelto per la realizzazione dell’intervento o abbiano uno stabile e significativo collegamento con esso, tenuto conto della portata delle possibili esternalità negative – rappresenta un elemento di per sé qualificante dell’interesse a ricorrere.

Per la sentenza integrale clicca qui.

  1. Una sentenza molto attesa

Molto attesa era questa pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, interrogata dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana (con la sentenza non definitiva n. 759/2021) ai sensi dell’art. 99, comma 1, Cod. proc. amm., sulla sufficienza o meno del requisito della “vicinitas” a fondare tanto la legittimazione ad agire che l’interesse al ricorso nei casi di impugnazione dei titoli autorizzatori edilizi[i].

D’altronde da tempo si auspicava un intervento nomofilattico sul punto[ii].

La conclusione è ormai nota: premesso che va riaffermata la distinzione e l’autonomia delle due condizioni dell’azione, rappresentate dalla legittimazione, da un lato, e dall’interesse al ricorso, dall’altro, nella materia edilizia il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, non è ex se sufficiente a dimostrare anche la sussistenza dell’interesse al ricorso, inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato la cui sussistenza è dunque necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio.

  1. Una premessa argomentativa di ampio respiro

La decisione è senza dubbio di ampio respiro nelle sue premesse argomentative.

Si prende avvio (al § 2) dal contesto in cui era stato concepito il noto art. 10 della “legge ponte” 765 del 1967 che attribuiva a “chiunque” le facoltà sia di prendere visione che di ricorrere contro le “licenze edilizie” illegittime: si trattava dell’introduzione limpidissima di un’ “azione popolare” (la pressoché concorde dottrina non aveva dubbi in proposito, da Sandulli a Guicciardi, da Spagnuolo Vigorita a Salvia e Teresi) per tentare di porre un argine al dilagare della speculazione edilizia del dopoguerra, poco o nulla ostacolata da amministrazioni locali troppo deboli o troppo permeabili.

Si ricorda quindi la “lettura diversa” della disposizione (purtroppo) operata dal Consiglio di Stato, come pudicamente viene definita in sentenza la giurisprudenza che, a partire della “decisione del chiunque” del 1970 (così battezzata dal Guicciardi) pervenne a rinchiudere l’actio popularis in materia edilizia nei confini di un interesse differenziato e qualificato, compendiato appunto nel criterio della “vicinitas”: formula latineggiante coniata dal giudice amministrativo per esprimere che, a dispetto di quanto previsto dal legislatore, la legittimazione all’impugnazione non sarebbe stata estesa a tutti i cittadini ma solo a quelli che potevano vantare un “insediamento abitativo” o comunque uno “stabile collegamento” (o una “radicazione in loco dei propri interessi”) la cui concreta individuazione era ovviamente rimessa al “prudente apprezzamento giurisprudenziale” (come ancora si legge in sentenza). O, se si preferisce, alla “smisurata discrezionalità del giudice”, come più schiettamente l’ha definita il Saitta[iii].

L’Ad. Plen. prende dunque atto (al § 3) dei due orientamenti presenti nella giurisprudenza amministrativa: quello maggioritario (cui, si ricorda, aderiscono anche le Sezioni Unite della Cassazione) per cui la “vicinitas” assorbe in sé tanto il profilo della legittimazione ad agire che quello dell’interesse al ricorso; e quello, minoritario, secondo il quale il “vicino” deve comunque fornire la dimostrazione dell’interesse al ricorso in termini di concreto pregiudizio derivante dal titolo edilizio impugnato. Una diversità di posizioni -sottolinea l’Ad. Plen.-  più astratta che concreta, giacché nella realtà dei fatti la riflessione giurisprudenziale sulla legittimazione spesso non è disgiunta da considerazioni sull’interesse ad agire.

A questo punto, la motivazione della pronuncia in esame (§ 4) dà conto della tendenza dei più recenti studi dottrinali volti all’estensione della legittimazione a ricorrere, utilizzando una pluralità di argomenti: da un richiamo ai giudici amministrativi a seguire un’impostazione processual-civilistica del problema (in termini di semplice affermazione dell’interesse vantato, più che di effettiva titolarità dello stesso) ad una piena valorizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale dell’art. 118, comma 4, Cost.; da una rivisitazione dei concetti processuali alla luce della teoria dei cd. “beni comuni” alla riemersione del “chiunque” nell’accesso civico.

Non manca una, sia pur concisa, analisi comparata dei principali sistemi nazionali e di diritto europeo sotto la cui influenza si riconosce l’avvenuta introduzione di maggiori spazi di riconoscimento dello standing processuale, specie in alcuni settori (a partire dalla materia ambientale).

  1. Una chiusura argomentativa fondata sugli schemi tradizionali, anche se con significative precisazioni

Pur partendo dalle grandi visioni dottrinali e comparate, la motivazione della pronuncia finisce tuttavia per rientrare rapidamente negli schemi tradizionali del processo amministrativo.

La sentenza ricorda (al § 5) l’acquisita autonomia della nozione di interesse al ricorso rispetto a quella della legittimazione ad agire (fondata sull’art. 100 c.p.c., applicabile giusta il rinvio esterno dell’art. 39 c.p.a.), in termini di “prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente” e di “effettiva utilità” derivante dall’annullamento dell’atto impugnato[iv] su cui riposerebbe la concezione soggettiva della tutela processuale amministrativa.

Quindi si richiamano i riferimenti contenuti nel Codice del processo amministrativo all’interesse a ricorrere, per desumerne “la necessità di una verifica delle condizioni dell’azione (più) rigorosa”, di cui viene tuttavia stemperato il rigore probatorio, precisando che la verifica giudiziale deve comunque avvenire “prescindendo dall’accertamento effettivo della (sussistenza della situazione giuridica e della) lesione che il ricorrente afferma di aver subito”. Un inciso quest’ultimo che -ci pare di poter interpretare- come una significativa apertura alle tesi dottrinali che -come ricordato nella stessa sentenza- richiamano il giudice amministrativo alla più ragionevole impostazione del problema dell’interesse ad agire tipica del processo civile.

Quindi, è alla luce di questo tradizionale schema processual – amministrativo che si traggono (al § 6) le conclusioni con riferimento all’azione di annullamento in ambito urbanistico – edilizio. Alla “vicinitas” deve aggiungersi dunque l’interesse al ricorso in termini di pregiudizio sofferto dal titolo edilizio in termini di possibile deprezzamento dell’immobile (confinante o contiguo) in godimento ovvero di compromissione dei beni della salute e dell’ambiente. Si rammentano quindi i casi riconosciuti dalla giurisprudenza: quelli più specifici, della diminuzione di aria, luce, visuale o panorama; e quelli più generali, delle menomazioni dei valori urbanistici e di degradazioni ambientali in ragione dell’aumentato carico urbanistico, della riduzione dei servizi pubblici, del sovraffolamento, dell’aumento del traffico. L’indagine giudiziale deve poi passare, si aggiunge, alla verifica dell’utilità derivante dall’annullamento: il che porta, ad esempio, ad escludere l’interesse ad agire in presenza di emendabili vizi formali del titolo edilizio, ovvero di permessi di costruire con termini di efficacia ormai decorsi e dunque decaduti.

Anche in questo caso il rigore formale del principio viene tuttavia mitigato dalla precisazione di due criteri applicativi, per cui l’interesse al ricorso (ossia, il pregiudizio derivante dall’intervento), da un canto, può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso e, dall’altro, può essere precisato ed anche comprovato dal ricorrente nel corso del processo (ove il pregiudizio sia posto in dubbio dalle controparti ovvero la questione venga rilevata d’ufficio dal giudicante ex art. 73, comma 3, c.p.a.).

  1. Più di un motivo di delusione, con qualche ragione di soddisfazione

Dopo aver fatto assaporare il lettore con la brezza delle teoriche più avanzate in termini di accesso alla giustizia amministrativa, l’Ad. Plen. riconduce dunque le condizioni dell’impugnazione dei titoli edilizi entro gli schemi tradizionali del processo di natura soggettiva.

È chiaro che evidentemente i tempi non sono ancora maturi per il superamento del “logoro paradigma della soggettività, con l’esclusione dell’accesso alla giustizia amministrativa di chi non possa esibire la titolarità di un diritto soggettivo”[v].

E’ altresì vero che, così facendo, si è perduta un’occasione di apertura del giudizio amministrativo in materia urbanistico – edilizia ad un controllo sociale diffuso della legalità, che sarebbe stato coerente con l’introduzione dell’istituto dell’“accesso civico” in funzione dell’anticorruzione, risultando a tale fine insufficiente la mera possibilità di visionare gli atti (assicurata nella materia dall’art. 20, comma 6, del TU dell’Edilizia), per cui -come è stato osservato- si “finisce per dar vita ad un sistema che sembra dire al cittadino che dovrebbe vigilare sul corretto uso del territorio: ‘Si guarda, ma non si tocca’”[vi].

Ulteriore motivo di delusione è il mancato superamento del “singolare regime di liquidità” (della cui ineluttabilità l’Ad. Plen. pare quasi prendere atto) rappresentato dal criterio della “vicinitas” in termini di assoluta indeterminatezza tanto della categoria soggettiva dei legittimati (proprietari, residenti, titolari di altro titolo di frequentazione?), che dell’ampiezza dell’area ritenuta “vicina” all’edificazione contestata e dunque suscettibile di esserne incisa. Né si ritiene che le precisazioni apportate in sentenza all’ulteriore condizione dell’interesse a ricorrere in termini di pregiudizio dell’atto (e di utilità dell’annullamento) possano effettivamente contribuire a diminuire il tasso, ad oggi elevatissimo, di discrezionalità giudiziale e di correlata imprevedibilità degli esiti del vaglio preliminare di ammissibilità dell’impugnativa anche sotto questo profilo[vii]. Ci si domanda dunque francamente se sia accettabile sul piano dell’effettività un sistema che, da oltre un cinquantennio, rimette ad un accertamento caso per caso l’accesso al sindacato giudiziale amministrativo in materie assai delicate.

Tuttavia, al netto di tali rilievi, v’è da aggiungere che ad un’attenta lettura della sentenza, si possono scorgere alcuni profili di (moderata) soddisfazione.

In primo luogo laddove si aderisce all’indirizzo giurisprudenziale che individua il pregiudizio alla base dell’interesse al ricorso avverso il titolo edilizio, non solo nel danno alla sfera patrimoniale in termini di deprezzamento dell’immobile di proprietà, ma anche quando l’attuazione dell’intervento determini una compromissione della qualità della vita, della salute, dell’ambiente e dei valori urbanistici.

Ulteriore ragione di apprezzamento è l’adesione della Plenaria alla linea interpretativa che non subordina la proponibilità dell’azione alla prova (talvolta vera e propria probatio diabolica) del pregiudizio attuale e concreto, bensì alla semplice rappresentazione di una lesione potenziale. Nel senso che – si precisa- va verificato che la situazione giuridica soggettiva affermata “possa aver subito una lesione”, ma non anche che “abbia subito la lesione”, concretamente ed effettivamente, poiché “questo secondo accertamento attiene al merito della lite”[viii].

Sono state dunque qui accolte le sollecitazioni della dottrina per cui in limine litis non può essere richiesta la prova del pregiudizio lamentato quanto invece la mera prospettazione di una lesione potenziale che il ricorrente rischia di subire a causa del provvedimento impugnato, giacché gli effetti negativi provocati dall’attività costruttiva si manifestano per lo più nel futuro, anche (e spesso) a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’opera.

  1. Non applicabilità dei principi enunciati dall’Adunanza plenaria all’accesso alla giustizia amministrativa in materia ambientale

I principi di diritto stabiliti dalla sentenza dell’Adunanza plenaria riguardano senz’altro le azioni di annullamento dei titoli autorizzatori edilizi in senso stretto. Il campo applicativo degli stessi può essere allargato, al più, alla materia urbanistico – edilizia.

Si dubita però che si possa estendere oltre tali confini l’operatività dei principi enunciati nella decisione; in particolare non si ritiene che ciò possa avvenire con riferimento alle azioni giurisdizionali amministrative nella materia ambientale.

Almeno due passaggi della pronuncia in esame escludono infatti una tale operazione espansiva.

Innanzitutto laddove (al § 3) si richiama l’adesione delle Sezioni Unite della Cassazione al richiamato indirizzo giurisprudenziale -da cui apertamente l’Ad. Plen. si discosta- per cui il requisito della vicinitas risulterebbe ex se sufficiente a fondare tanto la legittimazione che l’interesse al ricorso. Molto chiara è l’excusatio di tale allontanamento dalla posizione (ripetutamente) assunta, anche di recente, dalla Suprema Corte[ix]: in quei casi, si precisa, si è in presenza di giudizi d’appello nei confronti di sentenze emesse dal Tribunale superiore delle acque pubbliche e, dunque, di “cause che non sono di edilizia in senso stretto e in cui i temi della protezione ambientale ricevono preminente protezione”.

Un secondo significativo indizio è ricavabile dal riconoscimento (contenuto al § 4) che l’analisi comparata dei principali sistemi giudiziari, sotto l’influenza del diritto europeo, ormai registra “una convergenza su talune linee di fondo”; tra queste, l”estensione della legittimazione ad agire in materia ambientale, realizzatasi un po’ ovunque”.

D’altronde, da ultimo è da segnalare una decisione di una sezione semplice del Consiglio di Stato successiva all’Adunanza Plenaria in esame (la sentenza della sez. IV, n. 935 del 9 febbraio 2022), in cui viene tranquillamente ribadito il principio per cui “i soggetti ricorrenti, radicati stabilmente nelle vicinanze … di un intervento che può compromettere l’interesse ambientale, non dovevano dimostrare il sicuro pregiudizio all’ambiente o alla salute ai fini della legittimazione a ricorrere (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 9 novembre 2020, n. 6862)” in quanto “ai fini della sussistenza delle condizioni dell’azione avverso provvedimenti lesivi dal punto di vista ambientale, il criterio della vicinitas – ovvero il fatto che i ricorrenti vivano abitualmente in prossimità del sito prescelto per la realizzazione dell’intervento o abbiano uno stabile e significativo collegamento con esso, tenuto conto della portata delle possibili esternalità negative – rappresenta un elemento di per sé qualificante dell’interesse a ricorrere, mentre pretendere la dimostrazione di un sicuro pregiudizio all’ambiente o alla salute, ai fini della legittimazione e dell’interesse a ricorrere, costituirebbe una probatio diabolica, tale da incidere sul diritto costituzionale di tutela in giudizio delle posizioni giuridiche soggettive (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 10 marzo 2021, n.2056)”.

È pur vero che la camera di consiglio in cui quest’ultima sentenza è stata decisa si è svolta anteriormente a quella in cui è stata deliberata la decisione dell’Ad. Plen. n. 22/2021; e tuttavia non v’è dubbio che si tratti di un pronunciamento significativo nel senso del perdurante riconoscimento della maggiore ampiezza della legittimazione processuale che dev’essere riconosciuta nella materia ambientale.

Peraltro non può omettersi di rammentare in proposito il fondamentale obiettivo dell’“ampio accesso” alla giustizia ambientale imposto dall’art. 9 della Convenzione di Aarhus del 1998 (ratificata dall’Italia con la legge n. 108/2001), oltreché dalle direttive 2011/92/CE sulla valutazione di impatto ambientale (art. 11) e 2010/75/UE sulle emissioni industriali (art. 25), che ne hanno recepito le disposizioni[x].

Non sappiamo quando si raggiungerà quanto preconizzato dalla dottrina secondo cui tale ultimo trattato internazionale “imporrà presto anche all’Italia un allargamento della legittimazione al ricorso giurisdizionale amministrativo: se non proprio un’azione popolare, come peraltro non sarebbe vietato dalla convenzione, sulla falsariga di quel ‘chiunque’ che era stato timidamente introdotto dalla legge-ponte urbanistica del 1967, sembrerebbe almeno doversi cessare un uso restrittivo delle condizioni dell’azione, conferire all’accesso alla giustizia amministrativa un grado proporzionale, se non un identico contenuto, rispetto alla libertà di tutti di accedere alle informazioni ambientali e di partecipare ai processi decisionali”[xi].

Ma certo quando si affronta il tema della legittimazione ad agire nelle climate change litigations già il requisito della vicinitas appare suonare obsoleto (a meno che non venga reinterpretato in termini di “vicinitas globale”)[xii], per cui aggiungervi anche ulteriori restrizioni sul piano dell’interesse al ricorso, appare ormai una battaglia di retroguardia.

Il tema deve peraltro fare ora i conti con la recente riforma degli att. 9 e 41 della Carta apportata dalla legge costituzionale n. 1/2022.

Invero l’introduzione, tra i principi fondamentali, della doverosità della Repubblica -e dunque di un’azione pubblica a tutti i livelli- di tutelare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi (oltreché il paesaggio), anche nell’interesse delle future generazioni, nonché l’aggiunta del “danno all’ambiente” (e alla salute) nel catalogo dei limiti all’iniziativa economica privata, debbono essere inevitabilmente riguardati come la costituzionalizzazione di quel principio dello “sviluppo sostenibile” che, sul versante processuale, è stato visto come il fondamento della legittimazione ad agire uti civis al fine di richiedere (rectius, pretendere) dalle istituzioni pubbliche l’adempimento del dovere di solidarietà (intergenerazionale) della tutela ambientale[xiii].

In un tale contesto è auspicabile una nuova pronuncia, questa volta forte e chiara, dell’Adunanza plenaria.

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