Non possono essere né un generico richiamo alla privacy, né il rilievo riguardante l’esistenza di procedimenti penali connessi a impedire ai diretti interessati l’accesso alle informazioni ambientali, così come definite dal decreto legislativo 195 del 2005, in tema di “Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale”.
Si parla, in buona sostanza, di quelle informazioni atte a consentire alle persone di comprendere il grado di salubrità e l’esistenza di eventuali pericoli per la propria salute esistenti in una determinata area (Per la consultazione integrale del decreto legislativo CLICCA QUI).
Va in questo senso la recedente pronuncia del Tar, che ha accolto il ricorso presentato da alcune Mamme No Pfas, assistite dall’avvocato Matteo Ceruti, esperto di questioni ambientali e promotore della rete professionale Lpteam (Per la sentenza integrale CLICCA QUI).
Il procedimento nasce dalla richiesta, da parte delle Mamme No Pfas, di accesso alle informazioni ambientali “detenute dalla Regione del Veneto inerenti il “Piano di campionamento degli alimenti per la ricerca di sostanze Perfluoroalchiliche”, mediante rilascio della documentazione completa dei risultati N. 01267/2020 REG.RIC. analitici del predetto campionamento, relativamente: 1) ai valori relativi a tutte le 12 sostanze perfluoroalchiliche analizzate nei campioni degli alimenti, ivi comprese le sostanze a catena corta; 2) alla geo-localizzazione delle matrici campionate. Con richiesta inoltre di conoscere: 3) se nelle aziende produttrici delle matrici alimentari in cui sono state riscontrate concentrazioni significative di tutti i Pfas (non solo PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS) siano state eseguite ulteriori ispezioni per verificare l’osservanza delle prescrizioni fornite dalle aziende ULSS territorialmente competenti; 4) se siano state eseguite ulteriori analisi di confronto in seguito al campionamento del 2016-2017; 5) quali azioni siano state intraprese a livello precauzionale e sanitario per evitare la diffusione dei prodotti contaminati”.
Uno dei punti fondamentali, disatteso dalla risposta della Regione, era quello relativo, appunto, alla richiesta di conoscere “i valori di tutte le 12 sostanze perfluoroalchiliche campionate ed analizzate nei campioni dei diversi alimenti (ivi comprese le cd. sostanze a “catena corta“: richiesta alla quale la Regione avrebbe replicato comunicando unicamente l’esito dei campionamenti relativi a due sostanze, Pfos e Pfoa, motivando questa scelta col fatto che solo per queste due sarebbe stato disposto un limite di tollerabilità. In realtà, a quanto chiarito nella memoria delle ricorrenti, gli esiti del campionamento sarebbero stati disponibili per tutte e 12 le sostanze, come emerge da una nota dell’Iss (Istituto superiore di sanità). Da qui la richiesta di potere consultare questi dati, proprio per valutare l’impatto dei Pfas sulla catena alimentare.
“Si consideri – spiega a questo proposito la memoria depositata in giudizio dalle ricorrenti – che non ha senso, in termini ambientali e in particolare di salute della popolazione, valutare l’esposizione ai PFAS limitandosi solo a PFOS e PFOA, quando è nota l’assunzione giornaliera di tante altre diverse molecole di PFAS di cui è necessario tener conto e su cui quindi v’è interesse a conoscerne la presenza nei diversi alimenti”.
Non solo: tra le 10 sostanze “ignorate” dalla risposta della Regione, ce ne sono – prosegue la memoria dell’avvocato Ceruti – di potenzialmente presenti nella falda acquifera contaminata della “zona rossa” e che potrebbero dunque essere entrate nella catena alimentare.
Tra queste sostanze perfluoroalchiliche negli alimenti (di cui la Regione non ha consegnato la documentazione) anche il Pfba, la molecola della “famiglia Pfas” seconda in assoluto, per presenza, nella “zona rossa”, e un agente del quale sono state trovate tracce anche in vegetali e animali, e nell’uomo incluso e, in particolare, nei polmoni. Il tutto in presenza di studi recenti ed assai autorevoli che evidenziano un eccesso del 60% di mortalità da Covid 19 nella “zona rossa”.
Queste le considerazioni principali alla base della richiesta di accesso alle informazioni ambientali, per conoscere non solo l’esatta situazione dei contaminanti Perfluoroalchilici presenti nei diversi alimenti, ma anche quali controlli successivi al 2017 sono stati eseguiti e quali azioni cautelative sono state poste in essere: tutte domande rimaste sinora senza risposta.
Infatti la richiesta delle Mamme No Pfas era stata inoltrata ai competenti uffici regionali il 14 luglio del 2020, ma era andata incontro a due dinieghi parziali da parte della Regione del Veneto: il primo, del 5 agosto successivo, da parte del direttore vicario dell’Area Sanità e Sociale – Direzione Prevenzione, Sicurezza alimentare, Veterinaria della Regione Veneto; ne era seguito un ricorso amministrativo accolto dal Garante dei diritti della persona della Regione Veneto, seguito tuttavia da un secondo diniego del 28 ottobre 2020 da parte della stessa Direzione regionale.
I due dinieghi regionali all’accesso alle informazioni arrivano, però, con motivazioni diverse: il primo opponeva una presunta tutela della privacy; mentre il secondo si fondava sul potenziale impatto di queste informazioni su procedimenti penali non meglio individuati. In effetti, sulla vicenda Pfas, sono stati aperti due distinti procedimenti penali, poi riuniti e attualmente in udienza preliminare davanti al Tribunale di a Vicenza (Per approfondire, CLICCA QUI).
I giudici del Tar Veneto, nel valutare il ricorso, hanno innanzitutto ricordato quelle che sono le informazioni ambientali di cui tratta il decreto legislativo 195 del 2005, ossia quelle riguardanti “lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d’interesse culturale, per quanto N. 01267/2020 REG.RIC. influenzabili dallo stato degli elementi dell’ambiente di cui al punto 1) o, attraverso tali elementi, da qualsiasi fattore di cui ai punti 2) e 3)” (punto 6) ; al punto 3 così richiamato si fa poi riferimento alle “misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori dell’ambiente di cui ai numeri 1) e 2), e le misure o le attività finalizzate a proteggere i suddetti elementi”.
Hanno quindi evidenziato come la normativa in questione preveda “un regime di pubblicità tendenzialmente integrale dell’informativa ambientale” e hanno aggiunto che “il richiedente non è tenuto a specificare il proprio interesse (art. 3, comma 1, del cit. decreto legislativo) e, sul versante oggettivo, sono escluse solo richieste manifestamente irragionevoli e formulate in termini eccessivamente generici, nonché quelle di cui all’elenco del primo e del secondo comma dell’art. 5″.
Per quanto concerne l’obiezione del potenziale impatto dell’accesso all’informazione su un procedimento penale connesso alla vicenda, i giudici amministrativi hanno chiarito come non sia sufficiente la semplice pendenza di un procedimento, peraltro ormai con indagini già concluse, per fondare il diniego all’accesso alle informazioni ambientali, dal momento che risulta invece necessario specificare in quale maniera l’accesso alle informazioni provochi un concreto pregiudizio al procedimento penale stesso, come, nel caso in esame, non è stato fatto.
“Basti – scrivono infatti i giudici – in questo senso, riflettere sul fatto che, a voler seguire questa impostazione (ossia quella contenuta nel secondo diniego della Regione, ndr), anche la pendenza di un processo penale in fase dibattimentale, e finanche di un processo in grado di appello, allorché la fase investigativa sia senz’altro conclusa e senza che emergano specifiche esigenze tali da suggerire la preclusione dell’accesso, potrebbe essere opposta dalla P.A. per escludere l’ostensione delle informazioni ambientali anche per molti anni“.
E’ stata ritenuta fondata e non superabile da un generico richiamo alla privacy anche la richiesta di geolocalizzare gli esiti dei campionamenti, alla luce dell’indubbio ed evidente interesse a “mappare” nello spazio la presenza di determinati inquinanti della famiglia Pfas trovati in alcuni alimenti.
Da qui la decisione finale: accoglimento del ricorso e ordine alla Regione di dare riscontro all’istanza di accesso entro 60 giorni.