Doveva essere una relazione, quella dei consulenti della difesa, in grado di smontare uno dei capisaldi della pubblica accusa e delle parti civili, ossia il rischio di insorgenza di patologie nella popolazione residente nella “zona rossa” con acqua contaminata da Pfas nelle importanti concentrazioni che sono state accertate; a dibattimento, tuttavia, è emerso un banalissimo errore di calcolo, che ha evidenziato come i valori contenuti nel documento tecnico che è stato presentato – riguardanti appunto il rapporto tra esposizione della popolazione ai Pfas e rispetto della dose tollerabile stabilita dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA)- siano stati sottostimati di 70 volte.
Il tutto è accaduto nel corso del controesame dei consulenti delle difese condotto dall’avvocato Matteo Ceruti di Rovigo, promotore della rete professionale Lpteam.
Gli imputati nel procedimento sono in tutto 15, i vertici delle aziende ritenute coinvolte nell’inquinamento da Pfas. Il dibattimento in corso è il frutto della riunione di due indagini, disposto dal giudice in sede di udienza preliminare. In particolare, il filone principale è quello che riguarda la contaminazione da Pfas a catena lunga (Pfoa e Pfos) che sarebbe avvenuta sino al 2013. Il secondo filone, invece, riguarda l’inquinamento ambientale (punito dall’art. 452 bis del codice penale) conseguente alla contaminazione da Pfas a catena corta (GenX e C6O4) dal 2013 al 2017. In questo secondo filone sono ipotizzati anche reati fallimentari, ossia relativi all’ipotesi di bancarotta, che vanno quindi ad aggiungersi a quelle di disastro (art. 434 c.p.) e avvelenamento delle acque destinate al consumo umano (art. 439 c.p.). Quest’ultima fattispecie prevede la competenza della Corte d’Assise, davanti alla quale è appunto aperto il dibattimento.
Presenti nel processo, come difensori di parte civile, tre avvocati della rete professionale Lpteam: appunto Matteo Ceruti, promotore della rete professionale Lpteam, e i colleghi Cristina Guasti e Marco Casellato, componenti della rete. Assistono, come detto, diverse persone aderenti al movimento delle “Mamme No Pfas”. Si tratta di mamme, ragazzi e altri residenti nella zona rossa, che si sono sottoposte al biomonitoraggio, con esiti purtroppo positivi, ossia con il rilevamento di concentrazioni di Pfas nel sangue superiore ai valori di riferimento, in determinati casi con patologie, secondo la letteratura, correlabili con l’esposizione a Pfas.
Alla scorsa udienza, tenutasi il 28 Novembre, era previsto il controesame di due docenti universitari, consulenti della difesa: Paolo Boffetta, epidemiologo e ordinario di Medicina del Lavoro all’università di Bologna, e Claudio Colosio, docente all’Università statale di Milano. Assieme, hanno elaborato la consulenza sul tema la “revisione critica dell’evidenza sugli effetti sulla salute esercitati da sostanze Pfas”.
Un documento che è stato esposto in aula in 81 slides che ha vagliato gli studi scientifici e le raccomandazioni delle principali Agenzie nazionali e internazionali che si occupano di inquinamento e salute umana. La tesi principale che emergeva dal documento è che non esisterebbe una correlazione certa tra Pfas e patologie, come le malattie cardiovascolari, la malattia ischemica del cuore, le malattie cerebrovascolari, l’ipertensione arteriosa, l’ipertensione gravidica, il diabete ed anche il cancro, malgrado l’avvenuto riconoscimento da parte della IARC (l’Agenzia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) del Pfoa come sicuro cancerogeno. I due consulenti delle difese hanno evidenziato solo una limitata associazione tra Pfoa e tumori al rene. Il tutto escludendo comunque che la pericolosità della sostanza abbia comportato un rischio concreto per la popolazione esposta nel Veneto.
Ma è su quest’ultimo fondamentale aspetto che la tesi dei consulenti è stata smentita in modo matematico.
“Secondo EFSA (2020) – hanno scritto i due docenti – una dose di 44 nanogrammi al giorno per soggetti di 70 chilogrammi di peso, è protettiva per la salute umana”.
Quindi, i consulenti della difesa hanno valutato che l’apporto giornaliero nella popolazione del Veneto (sulla base di dati di contaminazione dell’acqua nel 2013 tratti da uno studio epidemiologico) sarebbe stato al livello massimo di Pfoa di 1.173 nanogrammi per litro. Calcolando, quindi, un consumo d’acqua di due litri al giorno per persona, si arriva a 33,5 nanogrammi/kg al giorno che sono stati assunti dagli abitanti della zona rossa.
Ed è qui che è scattato l’equivoco. Perché, nella relazione dei consulenti, questo valore di 33,5 nanogrammi al kg al giorno, viene comparato con i 44 nanogrammi al giorno stabiliti da EFSA come dose tollerabile (ma per una persona del peso medio di 70 Kg!), concludendo che è inferiore e, quindi, la concentrazione di Pfoa alla quale si fa riferimento non sarebbe stata pericolosa per la salute umana delle persone della zona rossa.
Peccato che il primo dato, ossia i 33,5 nanogrammi/kg al giorno, sia riferito, appunto, a un solo chilogrammo di peso; il secondo, i 44 nanogrammi al giorno, fa invece riferimento a 70 chilogrammi, ossia il peso medio di un essere umano.
Un equivoco banale, ma dalle conseguenze, invece, per nulla irrilevanti, colto dall’avvocato Ceruti che ha chiesto ai consulenti: “Com’è possibile che questi 33,5 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo sia rispettoso dei limiti EFSA che sono 44 nanogrammi die per una persona però che pesa 70 chilogrammi“. Aggiungendo: “o quel valore di 33,5 va moltiplicato per 70”, per cui “l’esito è 2345 nanogrammi litro che supera abbondantemente i 44”?
Per quindi concludere: “Ammette l’errore?”
“Ammetto che c’è un errore di calcolo”, la risposta del consulente.
Un errore piuttosto consistente visto che dimostra come la popolazione della zona rossa sia stata esposta a valori di Pfoa (senza considerare gli altri Pfas e tenendo conto della sola assunzione di acqua, senza considerare gli alimenti vegetali e animali) di circa 53 volte superiori alla dose massima tollerabile raccomandata dall’Autorità europea nel proprio parere del 2020, per evitare rischi significativi per la salute.
Il processo è ora avviato verso la sentenza, prevista nella prima metà del 2025.