Nel maxi processo aperto di fronte alla Corte di Assise di Vicenza sul caso Pfas, che vede impegnati, come parte civile, gli avvocati della rete professionale Lpteam, si apre un fronte la cui importanza va oltre il procedimento penale in corso, già di per sé, comunque, uno dei maggiori processi ambientali a livello nazionale. E’ infatti emersa la questione, così come la necessità, di una indagine epidemiologica che studi in maniera esaustiva l’impatto degli inquinanti Perfluoroalchilici, veicolati in primo luogo dalle acque di falda utilizzate a scopo idropotabile, ma anche dagli alimenti, sulla popolazione esposta.

“Dalla testimonianza del dottor Giampaolo Stopazzolo (ex funzionario Ulss 8 Berica, ndr), resa il 17 marzo 2022 in Tribunale a Vicenza, è emerso un fatto molto importante: la Regione ha già in suo possesso tutti i dati che le consentirebbero di eseguire un’indagine epidemiologica sulla popolazione contaminata da Pfas”, spiegano infatti le Mamme No Pfas. Si tratta di mamme, ma non solo, e in generale persone residenti nella zona rossa, che si sono sottoposte al biomonitoraggio, con esiti purtroppo positivi, ossia con il rilevamento di concentrazioni di Pfas nel sangue superiore ai valori di riferimento, in determinati casi con patologie secondo la letteratura correlabili con l’esposizione a Pfas. Le assistono, come difensori di parte civile, gli avvocati Matteo Ceruti, promotore della rete professionale Lpteam, e i colleghi Cristina Guasti e Marco Casellato, componenti della rete.

Gli imputati sono in tutto 15, i vertici delle aziende ritenute coinvolte nell’inquinamento da Pfas. Il dibattimento in corso è il frutto della riunione di due indagini, disposto dal giudice in sede di udienza preliminare. In particolare, il filone principale è quello che riguarda la contaminazione da Pfas a catena lunga (Pfoa e Pfos) che sarebbe avvenuta sino al 2013. Il secondo filone, invece, riguarda la contaminazione da Pfas a catena corta (GenX e C6O4) dal 2013 al 2017. In questo secondo filone sono ipotizzati anche reati fallimentari, ossia relativi all’ipotesi di bancarotta, che vanno quindi ad aggiungersi a quelle di disastro, inquinamento ambientale e avvelenamento delle acque. Quest’ultima fattispecie prevede la competenza della Corte d’Assise, davanti alla quale è appunto aperto il dibattimento.

Nel corso della medesima udienza, ha poi deposto Rinaldo Zolin responsabile degli screening oncologici della Ulss 8 Berica. In particolare, in risposta alle domande dell’avvocato Ceruti, ha ricordato come fosse stato avviato, per poi essere abbandonato, il trattamento di plasmaferesi per le persone che, a seguito degli screening promossi, risultavano avere valori di Pfoa nel sangue significativamente più alti della media.

“Dopo circa un anno che avevamo iniziato l’attività – ha spiegato – in alcune persone si riscontravano livelli di Pfoa nel sangue più elevati dalla media diciamo, ecco, valori che potevano essere superiori ai 100, ai 200 e via dicendo (…) Comunque valori diciamo che erano abbastanza alti rispetto al valore di riferimento che è per il Pfoa massimo di 8. Allora la Regione Veneto e mi ricordo al tempo il Dott. Mantovan, aveva messo in atto questa… una possibile soluzione che era quella di… identificare queste persone, di proporre questo trattamento che è tipo un trattamento per far capire tipo una dialisi, no, il sangue passa attraverso degli strumenti, il plasma diciamo viene purificato da queste sostanze (…) Però ad un certo punto è stato interrotto, sempre per quello che so io, perché il Ministero ha detto che non c’erano studi sufficienti che potevano avvalorare questo tipo di trattamento anche nei confronti di eventuali eventi avversi, non so, collaterali”.

E’ stata quindi ascoltata Linda Chioffi, dell’Ulss 9, Direttore del Servizio Igiene degli Alimenti e della Nutrizione, uno dei servizi del Dipartimento di Prevenzione e che ha seguito da vicino la vicenda Pfas. Sollecitata dalle domande dell’avvocato Ceruti ha spiegato come il Pfas più rilevante per esposizione e rischio sia il Pfoa, che viene trasmesso, appunto, dall’acqua e, in misura minore, dagli alimenti.

“Il sottogruppo di popolazione con esposizioni più elevate è rappresentato dai soggetti che consumano alimenti locali e autoprodotti, soprattutto elementi di origine animale, contemporaneamente consumano a scopo potabile acqua di pozzo autonomo. In questo caso si possono raggiungere livelli espositivi elevati, soprattutto di Pfoa nella zona rossa A”, ha spiegato, in risposta alle domande dell’avvocato Ceruti.

Altra udienza di grande importanza è stata quella del 24 marzo, con l’audizione Francesca Russo, direttrice del Dipartimento di prevenzione della Regione Veneto, che ha parlato delle attività di screening sanitario che sono state poste in essere per cercare di comprendere l’impatto dei Pfas.

La teste ha quindi ricordato come, tra luglio 2015 e aprile 2016, con il coordinamento dell’Istituto Superiore di Sanità, sia stato condotto uno studio esplorativo di biomonitoraggio, per valutare le concentrazioni di Pfas nel sangue di un campione di persone residenti in alcune aree soggette all’inquinamento e confrontarle con quelle di un campione di controllo, che non risultavano essere state sottoposte a contaminazione da Pfas.

 Uno studio che ha coinvolto oltre 500 persone, tra i 20 e i 50 anni, che sono residenti in 14 Comuni. “Lo studio – ha spiegato Russo nel corso della propria deposizione – ha rilevato concentrazioni di Pfoa significativamente più elevate nel sangue delle persone residenti nelle zone interessate dalla contaminazione rispetto al gruppo di controllo”.

Secondo lo studio epidemiologico, rispetto al resto della regione la popolazione della zona rossa ha dimostrato, tra il 2007 e il 2014, un eccesso di mortalità per cardiopatia ischemica pari a un +21% nei maschi e +11% nelle donne; un aumento di incidenza di malattie cerebrovascolari nei maschi pari al +19%, aumento di incidenza del diabete mellito +25% nelle donne, un aumento di incidenza di demenza +14% nelle donne.

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